Hai da dirmi, che mi guardi così? Che c’è? Non mi riconosci. No, aspetta, aspetta, lo immagino, sono io che ho la faccia di quello che non ti riconosce. Quando si è rotto? Quando è stato che hai smesso di essere mio e io tuo? Deve essere stato in un momento sottile, in un momento nel quale mi sono perso a sognare primavere tra palazzi rossi, ad ascoltare la nostra musica come fosse solo mia o anche di altri posti. Quel muso duro lì, come se me l’hai giurata. Come se mi hai giurato di far finta di niente. Come volessi allontanarti guardando altrove, ritrarti facendo finta di nulla aumentare, questa distanza che ci separa. Non cadiamo più sulle stelle, Caterina è cresciuta, Chiara si sposa e non con quello per cui mi ha lasciato, a che sarà servito, poi, quel giovane olocausto cui tu assistetti, che tu segretamente celebrasti, come domini ogni cosa e ogni gente di qua. I fuochi hanno un altro odore, anche l’impianto è diverso, conosco la metà della gente. Qualcosa dentro ai miei piedi ha ancora bisogno di affondare nudo in quest’oceano di molecole, mondi ultimi, numeri primi, la grande mamma fatta di atomi che ha plasmato, educato le piante dei miei piedi; la mia testa deve essere immersa in te, i miei occhi guardare i raschiaterra e i paguri sul fondo, sul nostro pianeta giallo-verde. Quest’alba è veloce ed eterna, viaggia troppo. Che hai da dirmi? Dimmelo, prima che quest’alba salga su in alto e io volti le spalle, prima di dover aspettare il mio prossimo cosciente estraniamento di fronte a te, dimmelo ora, perché ho paura ora, dei miei piedi e delle mie mani, che non sono più palmati, del mio stomaco che non succhia più salmastro, di me riciclato creatura di smog e cloro. Solo ora, accendi il magnete, rendimi grave verso di te, risucchiami finché sono qui, prima che io esca di nuovo da me. Rotolami dentro di te. Nella tua gravità che è l’unica vera per me. Rotolami nel tuo ventre, dove i su e i giù sono veri solo un po’. Perché fuori da te io non ho più avuto un verso. Non so come mettermi.