Till death do us party è stato pubblicato su Argo
Cecilia aveva messo sul piatto il vinile di True Blue, aveva acceso il giradischi, aveva appoggiato la puntina sul bordo del disco ed era andata a sedersi al centro del divano, distendendosi sullo schienale e lasciando che le braccia si adagiassero ai lati occupando quasi tutto lo spazio, e ora fissava Ferruccio con occhi duri, dalle palpebre immobili. Ferruccio la guardava, poi volgeva la testa a destra e a sinistra, gemeva, si grattava il capo e poi passava le mani sui pantaloni all’altezza delle cosce, e di nuovo la guardava con gli occhi lucidi, implorando una spiegazione.
– Non vali niente, – disse lei, – sei un incapace totale senza cervello e pure brutto, una merda di scimpanzé, un fallimento senza speranza.
Batté una mano sul cuscino del divano.
– Io e te abbiamo chiuso. Mi fai schifo. La tua faccia mi fa schifo, il tuo corpo mi fa schifo.
Ferruccio abbassò il capo e mandò un altro gemito. Tornò in cucina, a sorvegliare la preparazione della cena. L’orologio segnava le 20.31: gli ospiti sarebbero arrivati a momenti.
Mentre era chino sui fornelli Cecilia gli passò accanto, e lui sentì il suo profumo e il tocco lieve del suo fianco sul sedere, provò una disperata nostalgia dei baci e del corpo di Cecilia, del calore e della pace del suo seno. Cecilia afferrò dal cesto il cavatappi nero da sommelier, estrasse il verme e lo infisse con un colpo secco nel sughero della bottiglia di Pignoletto ancora gelida di frigo. Ferruccio la sentì alle sue spalle fremere dalle narici mentre piantava il dente sulla bocca della bottiglia e sradicava il tappo. Il braccio destro di Cecilia si tese sulla spalla destra di Ferruccio per prendere un calice dal mobile alto, poi versò il vino nel bicchiere e si allontanò tornando al divano.
Trascorse appena un minuto durante il quale Ferruccio continuò a sollevare i lembi della pasticciata dal fondo della padella, girò il riso, preparò altri due tramezzini, poi il campanello suonò e Cecilia si alzò per andare ad aprire. Premette il pulsante del portone del palazzo, girò la maniglia e lasciò la porta bianca accostata, tornò al divano, si sedette, si rialzò, appoggiò il bicchiere sul tavolinetto di vetro, si passò le mani sui jeans tesi, si aggiustò i capelli, indossò un sorriso, e attese gli ospiti nel mezzo della sala con le braccia abbandonate sui fianchi, i talloni lievemente sollevati, il viso un po’ in avanti.
Si sentirono prima le voci: – Permesso? – e uno a uno gli amici comparirono da dietro il rettangolo della porta aperta: prima Manlio, poi Lavinia, Diana con il minuscolo Flavio in braccio, e infine Valerio.
Cecilia baciò tutti e tutti baciarono Cecilia; sollevò lieve un pizzo della cuffia di Flavio – Che amore, mamma mia, Diana! – mentre Valerio entrava per primo in cucina e salutava Ferruccio:
– Ferruccio, ciao! Ti dai da fare, eh?
Ferruccio abbandonò il cucchiaio di legno sul bordo della padella e si voltò sorridente verso Valerio cercando di nascondere gli occhi ancora lucidi in un abbraccio per poi voltarsi subito ai fornelli, ma entrarono anche gli altri.
– Eccolooo! – gridò Diana, e gli diede un bacio sulla guancia, piegandosi in avanti e tenendo Flavio tra loro.
– Il protagonista indiscusso della serata! – disse Manlio.
– Ciao Ferruccio, – disse Lavinia, accarezzandogli la spalla.
– Ehi, – disse Manlio con un ghigno, – qui c’è una pasticciata! Cecilia, stasera fai un’eccezione?
– Chi? La vegetariana di ferro? – disse Diana.
– Be’, – disse Cecilia abbassando il capo e sorridendo, – sulla pasticciata ci penso.
Diana le accarezzò i capelli. Valerio rise.
– Intanto vi verso il vino, – disse Cecilia, accostandosi a Ferruccio che si abbassò per permetterle di prendere più agevolmente i bicchieri. Cecilia versò il vino nei calici svuotando la bottiglia di Pignoletto, aprì il frigorifero e ne tirò fuori una identica, la aprì con il cavatappi nero e la lasciò sul piano della cucina. A due a due, portò i calici agli altri che si erano accomodati in sala, Diana con Flavio in braccio e Manlio sul divano, Valerio sulla poltrona, Lavinia su una sedia. Cecilia allontanò dal tavolo una sedia per sé, andò al tavolinetto di vetro, prese in mano il suo calice, tornò alla sedia e si sedette in punta.
Ferruccio dalla cucina li ascoltava. Parlavano dei concerti e del teatro e delle mostre cui erano appena stati, di alcuni eventi notevoli degli anni passati, e di quelli che stavano per arrivare e per i quali si stavano organizzando. Portò in tavola i tramezzini sul vassoio d’argento. Si voltarono a guardarlo, – Grazie Ferruccio, – dissero uno dopo l’altro. Tornando in cucina Ferruccio vide Manlio alzarsi e prendere il vassoio e cominciare a fare il giro della sala per porgerlo agli altri, continuavano a parlare di ciò di cui parlavano. Mentre Ferruccio spegneva il fornello sotto la pasticciata, l’ultima canzone del primo lato del disco finì e ci fu un momento di silenzio; sentì Diana dire:
– Allora? Questo Giulio?
Diana aveva formulato la domanda a un volume più basso rispetto a tutte le altre cose che si erano detti fino a quel momento; seguì una seconda domanda, probabilmente più specifica, che Ferruccio non comprese; ci fu un nuovo momento di silenzio, e poi la voce di Cecilia, che bisbigliò qualcosa a un volume ancora più basso, e infine le risate soffocate di tutti. Una lacrima gli cadde nella pentola del riso, due, tre, finché non si passò il dorso peloso della mano sugli occhi. Qualcuno, di là, girò il disco e riavviò il piatto.
Assaggiò il riso: era pronto, lo scolò e lo portò in tavola assieme alla pasticciata. Gli ospiti presero i loro posti.
La cena fu breve, nessuno mangiò troppo e Ferruccio meno di tutti; gli amici non fecevano che complimentarsi con lui, Cecilia non gli rivolgeva uno sguardo; di tanto in tanto si era alzato per cambiare i piatti e liberare il tavolo dai recipienti vuoti: li portava in cucina, nel lavello, apriva il rubinetto e si tratteneva a sciacquarli, lontano da Cecilia, mentre da di là venivano i discorsi sui vecchi tempi, e di lì, transitando attraverso le consuete professioni di incredulità sui quarantanove anni di Cecilia, si era finiti al suo rigore fisico e spirituale, la floriterapia, lo yoga e la fluida attività dei suoi chakra.
– Il corpo riflette la serenità interiore, – stava dicendo Cecilia quando Ferruccio uscì dalla cucina per cambiare lato al vinile, – ragazzi, ma per forza, su: essere in armonia, non fare del male a nessuno, è tutto qui: non covo brutti pensieri.
– Su di te, – disse Diana, mentre Ferruccio tornava alla sua sedia.
Cecilia sorrise e scosse il capo come per levarsi di mezzo una mosca, posò il bicchiere sulla tovaglia, si voltò alla sua destra, verso Diana che scrutava il musetto addormentato di Flavio.
– Sarebbe?
– Non covi brutti pensieri su di te, Cecilia, – disse Diana girandosi a guardarla e sorridendo – io non sono come te perché le mie bruttezze le contengo responsabilmente dentro di me.
Risero. Ferruccio sentì che stava per scoppiare a piangere; si alzò e cominciò a raccogliere i piattini del dessert e i cucchiaini per portarli nel lavello della cucina.
– Ferruccio, sei proprio l’eroe, stasera, – disse Manlio.
Ferruccio lo guardò, disse – Uh! – e sfoderò il miglior sorriso che aveva, digrignando tutti i denti, arricciando le labbra fino a mostrare le gengive.
Si allontanò con i piatti, entrò in cucina, e li lasciò cadere nel lavello facendo un rumore di cui subito si vergognò. Aprì il rubinetto scatenando un flusso d’acqua spesso e compatto, e scoppiò a piangere.
Entrò Cecilia, si chiuse la porta alle spalle.
– Ma guardalo! Piange, anche! Ma che cazzo piangi! Tanto non cambia quello che sei, una merda! Pensi che io stia bene? – si appoggiò alla porta della cucina con le mani dietro la schiena, – credi che io sia, non so, felice e luminosa, dopo che mi hai costretta a impartirti la lezione che meriti? E non guardarmi così! Sì, sì, te la meriti. Per quello che sei, sei schifoso!
Uscì lasciando la porta aperta. Ferruccio chiuse il getto del rubinetto e rimase immobile, le mani accartocciate sul bordo del lavello, i peli delle mani bagnati e neri. Allora sentì distintamente Diana sussurrare: – Era necessario?
Non capì la risposta di Cecilia. Li sentì parlare piano, tutti, tra loro. Fino a che Cecilia alzò di poco la voce e disse:
– No, non lo faccio io. Già l’ho lasciato.
Seguì un istante di silenzio, poi la voce di Lavinia.
– Lo faccio io.
Lavinia entrò in cucina e passò dietro Ferruccio ancora chino sul lavello, prese il cavatappi e il panno di spugna che usavano per asciugare i piatti: gli si avvicinò e gli avvolse con dolcezza il panno attorno al collo, come una sciarpa, gli accarezzò il capo, gli passò un dito dall’alto in basso sulla spina dorsale, gli aprì la mano sul bacino. Ferruccio ebbe un fremito. Lavinia disse:
– Grazie, tesoro.
Ferruccio fu accecato da un dolore alla base della nuca. Qualcosa era entrato dentro di lui, dove non doveva stare; gli piovve in bocca un sapore metallico, mentre nella carne avvertì la consistenza fredda dell’acciaio, lo sentì scavare nella sua testa. Poi vide bianco, bianco senza scampo.
Lavinia tornò dalla cucina con un sorriso larghissimo sulle labbra e il cavatappi insanguinato in mano; sollevò le braccia in segno di vittoria. Tutti si alzarono e dissero: – Eeeh! Evviva! – e applaudirono. Cecilia si alzò dalla sedia, girò intorno al tavolo saltellando e andò ad abbracciare e baciare Lavinia.
– Dài! Diamoci una mossa! – disse Valerio.
Mentre Cecilia e Lavinia sgomberavano il tavolo, Manlio e Valerio andarono a prendere il corpo di Ferruccio. Diana li guardava sorridente dalla poltrona, cullando Flavio. Valerio e Manlio adagiarono il corpo di Ferruccio sul tavolo, a pancia in giù; aveva le maniche della camicia tirate su per via del lavoro in cucina, e le braccia abbandonate, come in attesa di un massaggio. Cecilia andò a prendere la falce e i cucchiaini. Porse la falce a Manlio:
– Vuoi fare tu?
– Oh yeah! – disse lui, Cecilia rise e lo baciò sulla guancia, poi appoggiò i cucchiaini sul tavolo, accanto al fianco di Ferruccio.
Manlio prese la testa di Ferruccio tra le mani, aggiustò un poco la posizione, poi con la sinistra la tenne ferma allargando il pollice e l’indice sulle tempie, e con la destra cominciò a ruotare la falce intorno al cranio; terminato il primo giro, afferrò con la mano sinistra i lunghi peli neri sulla sommità del cranio, annodandoseli bene attorno alle dita strette a pugno, e con l’altra mano continuò a girare la falce attorno al cranio, finché non si udì lo schiocco, e la calotta si staccò mostrando il cervello striato di sangue di Ferruccio.
– Eeeh! – gridarono tutti, e applaudirono.
– Aspetta aspetta, – disse Cecilia precipitandosi in cucina, – il Prosecco!
– Le bollicineee! – disse Lavinia.
– Super! Scimmia e Prosecco! La morte sua! – disse Valerio, – fortuna che ci hai pensato, sennò rimanevamo come l’ultima volta.
– Mamma mia, – disse Diana, – è stato più di vent’anni fa, e tu ancora ti ricordi che non avevamo il Prosecco?
– Eccolo, eccolo! – disse Cecilia tornando, – su, scolate!
Cecilia fece saltare il tappo mentre Diana proteggeva la testolina di Flavio con una mano e gli altri svuotavano i calici; quando tutti ebbero appoggiato i bicchieri sui tavoli, Cecilia li riempì.
Brindarono.
– Veloci, dài, sennò si guasta, – disse Valerio.
– Tieni, vegetariana, – disse Manlio prendendo l’ultimo cucchiaino rimasto sul tavolo e porgendolo a Cecilia. Cecilia baciò di nuovo Manlio sulla guancia, vicino alle labbra.
– Ehi, vacci piano! – le disse Lavinia, e risero tutti.
Si riunirono in cerchio attorno alla testa di Ferruccio. Cecilia immerse il cucchiaino nel cervello di Ferruccio, ritagliò una piccola porzione, poi affondò, e mosse orizzontalmente, per separarla, e se la portò alle labbra.
– Eeeh! – fecero gli altri, e anche loro cominciarono a servirsi.
Diana fece il gesto di avvicinare il cucchiaino con una particola di cervello alla bocca di Flavio.
– Diana! – gridò Lavinia, – per favore!
Risero tutti di nuovo.
Lavinia accarezzò il minuscolo braccio di Flavio, prese un ciuffo di peli nerissimi tra le dita e se li rigirò.
– Mio Dio, senti come è morbidooo!
Cecilia sentì la bocca riempirsi di quel sapore agrodolce che la riportava così indietro nel tempo; guardò Flavio, e le voci degli altri le parvero attutirsi all’improvviso: certamente il piccolo sarebbe stato il loro ultimo dessert speciale, e forse qualcuno di loro non avrebbe visto quel giorno. Girò lo sguardo sui suoi amici, e fu come se vedesse per la prima volta i capelli striati di grigio di Diana, i muscoli ogni anno più sgonfi di Manlio, la pelle che si arrendeva attorno al mento di Lavinia, le rughe che si sprigionavano dagli angoli degli occhi di Valerio. E capì di non avere scampo.