Inverno ’ 89: una tempesta in Colorado, un cambio di turno in aeroporto, mio padre che va in vacanza, un aereo che tenta di far scalo, un’isola in mezzo all’oceano, una mappa che non si trova, un pilota distratto, un errore, una montagna, leggerezza, un ragazzo alla torre di controllo, una donna che va a fare la spesa, un altro errore, le nuvole, un boato, niente fiamme.
Cinque anni fa ho deciso di vedermela con questa storia. Sono andata sull’isola e ci sono rimasta un mese. Ho fatto riprese e ho scritto un diario. Quando sono tornata ho letto tutto ciò che ho trovato sull’incidente, ora so un sacco di cose sugli aerei. Ho iniziato un lento lavoro di ricerca negli archivi filmici e fotografici di famiglia per conoscere mio padre attraverso il suo sguardo e lo sguardo degli altri. In questo percorso ho inaspettatamente incontrato mia madre, mia sorella e anche me stessa.
Questa non è la mia storia privata, nel disastro aereo delle Azzorre hanno perso la vita 144 persone.
Avevo letto il diario di viaggio di Cecilia alle Azzorre prima che trovasse un editore: è un romanzo straordinario, un estratto, distillato in prosa, di quel mostruoso processo di restituzione del reale in cui consiste l’opera aperta multimediale a cui Cecilia si sta dedicando da anni e di cui This HOME is NOT A Temple rappresenta una summa e una sintesi, un giardino di materiali differenti, organizzati in temi differenti, su supporti differenti e offerti al visitatore in una dislocazione spaziale che permette percorsi molteplici, diversi, e di fatto mai totali se non si è Cecilia Giampaoli.
In quel diario emerge il fastidio della protagonista di fronte a qualsiasi interpretazione del suo viaggio, da parte dell’interlocutore di turno, come tassello o culmine di un’elaborazione del lutto. Fastidio, per quel che mi riguarda, del tutto comprensibile, e comprensibile, credo, sia a chiunque racconti storie, sia a chi torna sui luoghi della propria identità, compresi quelli in cui non è mai stato, ma che hanno determinato ciò che è diventato attraverso le altre vite che da quei luoghi sono state determinate e che a loro volta hanno determinato la sua. Non si tratta di produrre un’accettazione, l’accettazione c’è già: il lutto è lì, solido, presente. Non elaborare: fare i conti con il lutto, annota Cecilia all’inizio del diario. Fare i conti, fronteggiare. Non si tratta di risolvere qualcosa che è contemporaneamente già definitivo e per definizione sempre insolubile; si tratta di abbandonarsi al reale, un abbandono a tratti persino estatico, un abbandono che non è dover ancora prendere coscienza della perdita bensì sentirsi per l’ennesima volta – e ogni volta in modo nuovo – coscienti di sé e della configurazione delle cose. C’è una forma di mistica del nulla, di teologia negativa, nel diario di Cecilia; una trascendenza fatta di non-trascendenza che ha risuonato in me come solo alcuni passaggi di Montaigne, di Jamaica Kincaid o di anonimi mistici disperati e abissali avevano saputo risuonare.
L’unica elaborazione che c’è nel diario e nel complesso della mostra è quella dell’opera. A essere in gioco non è il lutto ma la persona, non l’accettazione ma la vita. Che poi capiti che questa dinamica creativa, questa distillazione e trasformazione dei materiali, alla fine cambi anche l’operatore, è solo la meccanica sempre vera dell’alchimia, e questa è solo una tra le possibilità di senso che This HOME offre allo spettatore, solo un livello della vertigine di frame che l’operazione è in grado di coinvolgere, un pinnacolo cerebrale che si innalza mentre la mostra ti mette in mano materiali emotivi come se ti mettesse in mano granate a cui è stata appena tolta la linguetta: i due aspetti, quello intellettuale e quello emotivo, non si separano mai, ma nemmeno si mescolano; entrano in una dialettica titanica e vicendevolmente produttiva, nella quale il personale emotivo diventa oggetto della discussione dell’impersonale razionale, una discussione che tra le altre cose trasfigura questo particolare personale emotivo, alla base di questa opera, nell’esempio di ogni vissuto alla base di un’opera, spazzando via, in questo modo, proprio l’autobiografismo egoriferito contemporaneo, per mostrare che lo speculare vero del fatto che ogni opera è autobiografica è che nessuna opera lo è, perché l’immaginario e il ricordo sono troppo vicini in noi e nessun materiale passa nelle nostre mani o anche solo nella nostra mente senza diventare un artificio.
Ma la questione non si chiude a questo livello, il framing cerebrale non è qui per costruire il solito rassicurante muro di teoria della produzione artistica, di decontestualizzazione degli oggetti e di disincanto postmoderno, non è qui per metterti al riparo da quel magone che ti sta venendo su così inesorabile. Al contrario: la facoltà analitica ti servirà solo a chiarire in che modo geniale This HOME sta intervenendo emotivamente su di te. Perché sei nello studio di casa di Cecilia, sei nel luogo dove lei lavora e vive, la mostra è organizzata nelle sue stanze: foto di famiglia, ritagli di giornali, quaderni delle elementari di Cecilia, resoconti ufficiali, tutto è offerto come appoggiato, a tua disposizione, tra i diversi dispositivi che restituiscono audio e video di epoche diverse, provenienze diverse, generi diversi, dal telegiornale al filmato di famiglia – e tutto accompagnato da foglietti e cartellini esplicativi, in un equilibrio tra personale e didascalico di una delicatezza incredibile, un’intermediazione che fa sentire il visitatore sempre ben accetto, accompagnato, mai lasciato solo. Questa parte fondamentale della vita emotiva di Cecilia e la vita lavorativa di Cecilia ti vengono offerte insieme, e là dove l’artificio aveva spazzato via l’autobiografismo, a un ulteriore livello della dialettica tra cerebrale ed emotivo la vita umana materiale spazza via il preteso disincanto dell’artificio, l’autorialità viene dissolta nell’umanità e nelle sue facoltà intellettuali, emotive, artigianali, che a loro volta assumono la forma di una poetica precisa, legata fisicamente e metafisicamente ai fatti – in questa opera la tensione tra le cose-umane-che-vanno-in-pezzi e il cielo spalancato, muto, totale e tutt’uno con il mare, è fondamentale – cosicché infine è l’umanità stessa a essere decostruita: la persona Cecilia viene mostrata come prodotto composito, fragile, instabile di una rete di relazioni affettive, e l’artista Cecilia è la sciamana che sparisce da sé stessa per prestare il proprio corpo operante a quella Cecilia interiore fatta di pezzi di vite passate proprie e altrui. L’opera diventa tutto, e a sua volta l’opera racconta la propria costruzione emotiva e materiale, la vita individuale, il dolore soggettivo reale, costitutivo dell’umano, che è alla base di ogni opera.