Per la prima parte, vedi qui.
In Noi dobbiamo essere i genitori, Wu Ming 1 parla di asimbolia del dolore, ovvero ciò che accade quando non si è più in grado di percepire il proprio dolore e capita pure di ridere; lo dice in riferimento al tardo postmodernismo. Ecco, Tutti carini comincia con quell’ironia di secondo grado di cui si diceva nella prima parte, che è invece doppiamente dolorosa: per il dolore dell’io narrante, provocato dal suo rapporto con il mondo, e per l’incapacità delle parole, svuotate dal postmoderno delle formule giovaniliste, di dire la tragedia: parte considerevole della tragedia è quindi l’impossibilità di dire la tragedia: il retroterra culturale pop del protagonista, che sul piano della fabula gli si rivolta contro e lo allontana dal mondo, si manifesta sul piano dell’espressione anche come ciò che non permette all’io narrante di esprimere in-mediatamente il suo disagio: stando così le cose, essendo io narrante e protagonista la stessa entità, l’espressione non solo è specchio del contenuto, ma aggiunge un plusvalore di contenuto (dell’altro dolore) sul piano della fabula.
Poi, man mano che il romanzo avanza, le formule giovaniliste che intendevano generare l’ironia di secondo grado diminuiscono fin quasi a scomparire; nel contempo la proliferazione dei campionamenti perde la misura, trabocca.
Mi è capitato in questi ultimi tempi di occuparmi della Futura classe dirigente (Peppe Fiore) che in qualche modo risponde al cannibalismo degli anni ’90 mettendo in scena un protagonista che ne richiama i tratti – tendenza alla bulimia, alla dissociazione psicologica, al cinismo – e l’attitudine – lavora in televisione – e che finisce vittima di un riflusso gastroesofageo, vale a dire il movimento opposto, in senso letterale, al divorare. In Principe di Persia (Angelo Calvisi) il riferimento all’avant-pop è anche più esplicito: il protagonista, che soffre di disagi mentali, vive la sua avventura nel videogioco evocato dal titolo, l’avventura è un crescente sovraccarico di informazione – anche elettronica – fino a quando il protagonista sfonda il muro del videogioco e con esso la gabbia del disagio mentale.
Al di là dei giudizi di valore, vedo forti analogie tra questi libri e Tutti carini, che viaggia in direzione diametralmente opposta al cannibalismo degli anni ’90, non solo per il romanticismo di cui è intriso e per il rifiuto polemico del cinismo espresso dall’ironia di secondo grado, ma anche perché il riutilizzo dei materiali di cui è composto non è cannibale: è vomitante. In Tutti carini l’eccesso di informazione e il sovrapporsi di culture spesso inconciliabili – la famiglia, lo sballo, la cultura scolastica, quella new wave, quella hip hop, quella esoterica che si fa strada via via nel corso del romanzo – producono una fuoriuscita incontrollata, perdite ovunque, sbocchi di grumi aforistici, poetici, narrativi. Tutto ciò ha una conseguenza anche sul piano del postmodernismo: mentre la scrittura dell’autore postmoderno-da-quattro-soldi è controllata e rispetto ad essa l’autore implicito prende le distanze, in Tutti carini il movimento è opposto: la scrittura esplode fuori dall’autore implicito, che non può prenderne le distanze meno o più di chi veda i propri organi interni esplodere fuori dal proprio corpo.
Non solo: nella sua ricerca bulimica di senso, il protagonista di Tutti carini si appoggia costantemente alle ragazze di cui si innamora, che idealizza collocandole sistematicamente ognuna in un determinato immaginario, un’estetica, un’embrione di grande narrazione nella quale possa finalmente trovare una stabilità e una direzione della sua storia personale. La conseguenza sul piano del testo è che, parallelamente all’esplosione dei campioni, cominciano a formarsi nebulose di mondi alieni, sequenze di vite alternative dell’io narrante e perfino sequenze di vite di completi estranei, mai nominati prima nel romanzo.
Tutti carini risponde polemicamente a ogni istanza del postmoderno-da-quattro-soldi, che sia essa l’ironia cinica, il disincanto, il cannibalismo, la fine della storia o la fine del senso; percorre l’ultimo tratto del postmoderno fino a raggiungere l’orlo del baratro, e da lì il postmoderno lo maledice.
Ed è lì che c’è anche il recupero del senso, il ritorno a un rapporto immediato con la realtà. Nell’ultimo capitoletto del libro si legge una rivendicazione barocchissima di unitarietà del testo (davvero brutta, mio Dio), come a dire una presa di coscienza, da parte dell’io narrante, di essere composito e ciononostante di essere una persona. Subito dopo viene la chiusa: «Buonanotte a tutti. Io vado a fare un giro»: dopo la ricerca disperata del senso che si è esaurita nella bulimia delle direzioni inseguite, nella disgregazione in mondi, nella fuoriuscita incontrollata dell’in-formazione ingurgitata, l’io narrante abbandona la fissa del controllo e della direzione: va a fare un giro, cioè intraprende un percorso che di per sé non ha nessuno scopo o direzione particolare, ma che comincia con la decisione di smettere di rigurgitare campionamenti e immaginari e di affidarsi piuttosto alla realtà, alle cose, a ciò che ti attende oltre la porta di casa, di fidarsi, finalmente, di un senso e di una direzione che siano spontaneamente offerti dalla realtà.
E con questo, spero di aver esaudito anche questa richiesta.
Stralci di Tutti carini si possono leggere qui.