Ho già scritto una volta della mia difficoltà a parlare delle opere di Simone Ghelli, eppure bisogna parlarne, perché Voi, onesti farabutti è un romanzo importante e bisogna dirlo. E però non riesco nemmeno a scegliere un passo da citare per mostrare almeno un esempio di questa scrittura straordinaria; ogni volta che dico “eccolo”, immediatamente sento di fare un torto al resto del romanzo. Forse è anche per questo che, nelle loro (ottime) recensioni, Vanni Santoni di citazioni ne ha portate tre, e Matteo Pascoletti otto. Sono citazioni la cui presenza è più che motivata dai contenuti che Matteo e Vanni hanno scelto di esporre, ma ho l’impressione che di fronte a questo testo si senta forte il bisogno di mostrare al lettore della recensione di cosa si sta parlando, di porgergli un esempio concreto di questa scrittura. Andate a leggerle, quelle recensioni. Di mio vi dico che la lingua di Ghelli è magra e pregna: è stata immersa nella materia e poi strizzata. E rotola: leggere Voi, onesti farabutti è fare l’esperienza di un flusso ossessivo, inarrestabile, e nel contempo accorgersi che è un problema tuo, perché il narratore è saldo, nella tempesta: con quella che per te è una valanga, lui ha imparato a conviverci, a modularla, a dominarla, a farne un potere; è diventata la sua voce: è un mangiafuoco, un fachiro, un’entità in grado di lasciarsi attraversare da elementi che distruggerebbero qualsiasi altra creatura dotata di un’attività psichica. E ti rendi conto che non è altro che il coraggio di uno che contemplava il suo complesso di rocce, e che poi un giorno ha deciso: si è levato in piedi ed è andato via; quando è tornato, aveva con sé un mucchio di corde: ha legato le corde attorno alle rocce, una per una, poi si è voltato, e gettandosi le corde sulla spalla e stringendo tutti i capi tra le mani, ha cominciato a tirare, a camminare trascinando le rocce con sé, con il suo corpo magro. Olio e vino, humus e sangue. Le visioni salgono dai buchi della terra: ho visto una famiglia antica in guerra, asserragliata tra le stoviglie sotto le raffiche della televisione che ogni giorno invade la Polonia. Voi, onesti farabutti è un rifiuto della cattiva astrazione, è il vivere nella carne il riflesso devastante del macrosistema. Un sasso di simboli e sensi che sale dal fondo del corpo, da ciò che lo costituisce e lo trascende, tellurico, a interpretarlo non mi ci provo nemmeno: quando le botte mi arrivano così, il lavoro lo fanno al di sotto della mia coscienza. Lo assumo per come è, e attendo che qualcuno che ne sa a pacchi si prenda la briga di schiavardare questo ordigno.