Da dove sto chiamando: se mi baso sulle orecchie – ovvero ciò che sento in giro, al bar, in rete – mi sembra che le manifestazioni di un disagio italiano e pesarese rispetto alla più o meno reale esistenza di un regime si esauriscano nella denuncia dell’illegalità e di una presunta censura dell’informazione. Questo lo dico da un punto di osservazione particolare: un’inespugnabile roccaforte della sinistra (si fa per dire), dove a un pds-ds-pd, che da anni alimenta una considerevole percentuale di berlusconismo nel proprio dna e che oggi assomiglia ogni giorno di più alla Lega, si oppone (si fa per dire) una sinistra che di sinistra ha poco, con radici grilline, perennemente impegnata nel diffondere «l’informazione» e nell’indignarsi per l’illegalità in prospettiva sia locale sia nazionale.
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Martiri della tecnica – parte prima:
del non nominare
Sul caso relativo al finevita andato in onda in Italia negli anni appena trascorsi e in particolare l’anno scorso, non ho saputo trovare, per quello che rientra nelle mie capacità, alcuna alternativa al non nominare il nome della persona più di ogni altra coinvolta con il suo corpo e con la sua identità. Il nominare, in tutte le forme che mi sono venute in mente e in quasi tutte le formule di cui ho fatto esperienza, lo sento ricadere nel campo gravitazionale di un’antropologia che intuisco e che ancora non sono forse in grado di definire con precisione, ma che mi terrorizza. In tutte le forme che mi sono venute in mente e in quasi tutte le formule altrui di cui ho fatto esperienza, il nominare lo sento essere, in modo chiaro e distinto, uno strumentalizzare. Di tutte le strumentalizzazioni, quella ideologica mi sembrava e mi sembra il male minore. La strumentalizzazione che sento essere il male maggiore è quella che per ora, senza molta precisione, chiamo la strumentalizzazione emotiva, la quale avviene, mi sembra, per mezzo dell’appropriazione del nome e dell’immagine, ovvero dell’identità, e quindi, in un qualche modo, della persona.
Un filo sottile e adamantino lega ogni male nel Male
Qui sopra la copertina del volume scritto – vi si trovano capitoli lunghi quattro pagine sulle quali, infatti, sono distribuite financo venti righe di parole, in lettere di grosso formato – e firmato da Omar Fantini. Potete trovarlo sul banco della libreria, accanto alle agendine, ai libri di aforismi, alle crestomazie delle imprescindibili opinioni di comici, calciatori e ospiti fissi di talk-show sul mondo in cui viviamo e sulla vita in generale.
L’assenza, in copertina, del volto dell’autore impietrito nella smorfia demente di occhi e bocca a uovo, con una mano di taglio alla nuca che mimi il configgersi degli anni ’80 nella coppa del trentenne o, più tradizionalmente, semichiusa a becco sul cucuzzo, nell’antico segno della scimmia citrulla, testimonia chi e cosa la storia ritenga tuttora, e si spera per molto altro tempo ancora, più importante. Ma anche indica quanto possa il subdolo nostalgismo.
Cosa fa Omar Fantini (parte quarta)
Una domanda è emersa più volte, tra i commenti ai post di questa serie e le email ad essi relative che ho ricevuto: ma non si starà attribuendo un’intenzionalità che forse non c’è? Avevo già scritto nel primo post: no. Non si sta attribuendo un’intenzionalità, né la si sta escludendo. In entrambi i casi un tipo antropologico è in azione: non è necessario che l’agente abbia un disegno, il disegno è già dato nella pulsione a distruggere determinate realtà, a magnificarne altre. In entrambi i casi il risultato è che Colorado Cafè, come dice il mio amico Daniele, è il braccio armato del Bagaglino. Quello che Colorado Cafè fa, lo fa. Il che non dimostra che quello che fa abbia una parte fondamentale in un qualche disegno di soggiogamento di massa, può anche esserne un epifenomeno, la qual cosa non sarebbe comunque meno rivelatoria della cultura e delle condizioni psicologiche dominanti Ma visto che ci sono, faccio un’altra immaginazione. Qual è lo strumento di formazione, informazione e persuasione più importante della realtà italiana? Mi sembra ovvio che sia la televisione. Qual è stato il prodotto televisivo di più grande successo nella fascia ragazzi dalla fine degli anni ’70? Gli anime. La corsa agli anime da parte di ogni rete televisiva italiana lo dimostra a sufficienza. Dunque gli anime sono stati lo strumento di formazione, informazione e persuasione più importante di chi oggi ha su per giù tra i trenta e i quarant’anni. Questa è quella che mi pare una premessa vera.
Cosa fa Omar Fantini (parte terza)
Per questo motivo la poesia è più filosofica e più seria della storia, perché la poesia si occupa piuttosto dell’universale, mentre la storia racconta i particolari.
Aristotele, Poetica
Naturalmente è cosa sana attribuire valore di verità a una descrizione scientifica – e quindi consensuale – della realtà e attribuire un minor valore di verità alle più eterogenee immaginazioni. Questo di per sé, tuttavia, non significa negare il valore dell’immaginazione, della metafora, dell’opera d’invenzione. Nel momento in cui invece mi si dice che una cosa è stupida (anzi: è da stupidi) nella misura in cui non è una descrizione scientifica della realtà, si fa proprio questo: si nega valore di verità e valore in generale a ciò che non ha valore di verità strettamente scientifica, si attribuisce all’immaginazione, alla metafora, all’opera d’invenzione un disvalore.
Qui non si tratta, è chiaro, di non saper decodificare i registri, di attendersi da Holly e Benji una partita che duri novanta minuti e un campo regolamentare, di rimanere disorientati e increduli. Qui si tratta, meramente, di delegittimare quell’immaginazione che va al di là del verosimile. I Gem Boy fanno questo: trascinano il fantastico sul terreno della realtà e dicono “Ma mica è vero”. Anche Omar Fantini fa questo quando parla di Holly e Benji.
Cosa fa Omar Fantini (parte seconda)
Sui limiti generati da una cultura pop totalitaria si può e si deve discutere, e in merito a ciò rimando allo splendido L’assedio del presente di Claudio Giunta. Tuttavia la serialità ha prodotto opere notevoli. Per la maggior parte dei rappresentanti della mia generazione Goldrake è il più bel cartone di robottoni di tutti i tempi e Ken il guerriero è il più bel cartone di bastonate di tutti i tempi, ma solo per pochi, forse pochissimi, la saga di Mazinga (della quale Grendizer è capitolo) rappresenta una delle pietre miliari della contestazione del vecchio Giappone militarista da parte dei giovani disegnatori giapponesi attivi negli anni ’70, contestazione che metteva in gioco concetti come l’ecologia e in generale il rapporto con il pianeta e con gli altri popoli del pianeta, la bellezza e la tragedia della relazione uomo-macchina, la lunga elaborazione del lutto atomico, il dubbio su come comportarsi davanti alle manifestazioni del male, il diritto di proprietà sulla terra, il problema dell’ideologia, dell’inibizione del sentire, del fascismo. Solo per pochi Hokuto no Ken è un’opera sul sacrificio, sul fato e sulla capacità di affidarsi alla sua corrente, su come si genera la cattiveria umana, su cosa sia davvero un messia e cosa ci si aspetta che faccia e cosa invece fa davvero, su quella terza possibilità, che sta tra il non agire e l’agire lasciando che l’abitudine anestetizzi, e che consiste nell’agire continuando a sentire, su cosa manchi a un dominatore per essere la creatura più evoluta del mondo e sul fatto che ciò che manca è la rinuncia a essere un dominatore.
Cosa fa Omar Fantini (parte prima)
“Come sono i tuoi coinquilini?”
“Boh… Tranquilli… Non so.”
“Di qualcosa parlerete!”
“Perché, noi di cosa parliamo? Iacopo, ti ricordi quando il Mella disse ‘certo, noi non si parla mai di nulla di serio, ma almeno neanche di calcio, marche o vestiti‘?”
“Magari aveva ragione, ma è diverso: tra noi è vero che non si parla granché dei cazzi nostri, delle cose importanti, però con le altre persone ci abbiamo sempre parlato. Mica siamo autistici. Via, di qualcosa parlerete!”
“Di cartoni animati.”
“Sono appassionati di anime?”
“No, no, non di quelli di ora… Parliamo di quelli vecchi, tipo Kenshiro, Yattaman, Georgie, Lamù, Fantaman, Arale, Paul & Mina…”
“Eh, vabbè, è come dire ‘ci parlo del tempo’… I vecchi cartoni animati giapponesi sono l’unica cultura condivisa della nostra generazione. […]”
Vanni Santoni, Gli interessi in comune
[Una volta in questo punto del post c’era un video ripreso da Colorado, una trasmissione Mediaset. Il video è stato poi cancellato da YouTube. Il protagonista era Omar Fantini, un comico il cui spettacolo consisteva sostanzialmente nel dire quanto sia fottuto nel cervello chi è cresciuto negli anni Ottanta, e questo a causa dei programmi tv cui si è sottoposto, programmi idioti la cui idiozia Fantini dimostrava con riferimenti stucchevoli alla polvere di Pollon e – immancabilmente – alla sessualità di Lady Oscar. Da qui in poi, questo post proseguirà come nella versione originale]
Il numero di atrocità interconnesse di cui si è reso responsabile Fantini può essere ragionevolmente considerato ostensione del filo sottile e adamantino che lega ogni male nel Male. Ciò che invece non è chiaro mai alle menti che non siano pregiudizialmente cospirazioniste o scettiche, ma che sono in ogni caso vittime d’overdose di rumore informativo, è se il singolo fenomeno sia il risultato di un disegno ordito da dominatori occulti o di un involontario stato generale dello spirito o di entrambi, e in caso secondo quale misura, suddiviso in quali parti e responsabilità, e se sono parti interne o parti esterne al fenomeno di volta in volta preso in esame, in questo caso, l’operare del singolo individuo. Se si tratti di trama o di riflesso è un dubbio che ormai, per chi vive in Italia, ricopre il ruolo che hanno le domande tipo, in metafisica, se sia fondativa la materia o l’idealità o, in tema morale, se viga un rigido determinismo o il libero arbitrio. Domande fondamentali delle quali la risposta appare nondimeno imperscrutabile: noi, di fatto, oggi, sappiamo cosa fa Omar Fantini, ma non sappiamo chi è Omar Fantini, il che non gli risparmia un’analisi. Limitiamoci dunque a vedere cosa fa Omar Fantini:
Contro l’ironia
In questa polaroid siamo tutti ironici. E a me l’ironia fa male. Anzi, la odio. Non solo io, anche Scarmiglia e Bocca. Perché ce n’è sempre di più, troppa, la nuova ironia italiana che brilla su tutti i musi, in tutte le frasi, che ogni giorno lotta contro l’ideologia, le divora la testa, e in pochi anni dell’ideologia non resterà più niente, l’ironia sarà la nostra unica risorsa e la nostra sconfitta, la nostra camicia di forza, e staremo tutti nella stessa accordatura ironico-cinica, nel disincanto, prevedendo perfettamente le modalità di innesco della battuta, la tempistica migliore, lo smorzamento improvviso che lascia declinare l’allusione, sempre partecipi e assenti, acutissimi e corrotti: rassegnati.
Giorgio Vasta, Il tempo materiale
L’ultimo ammicca
Da Così parlo Zarathustra, di Nietzsche:
“La terra allora sarà divenuta piccola, e su di lei andrà saltellando l’ultimo uomo, che renderà tutto piccino. La sua schiatta è indistruttibile come la pulce di terra; l’ultimo uomo è quello che vive più a lungo di tutti.
Noi abbiamo inventato la felicità, dicono gli ultimi uomini, e ammiccano.
Hanno abbandonato le regioni dove era duro vivere: perché c’è bisogno di calore. Si ama ancora il prossimo e ci si strofina a lui: perché c’è bisogno di calore.
Ammalarsi e diffidare è per essi peccato: e si va avanti guardinghi. Pazzo chi ancora incespica sulle pietre o sugli uomini!
Ogni tanto un po’ di veleno: esso fa sognare gradevolmente. E alla fine molto veleno, per gradevolmente morire.
Si lavora ancora, poiché il lavoro è un modo di passare il tempo. Ma si cerca di fare in maniera che questo divertimento non danneggi.
Non si è più poveri o ricchi: entrambe le situazioni sono troppo impegnative. Chi vuole ancora dominare? Chi vuole ancora obbedire? L’una e l’altra cosa sono troppo impegnative.
Non un pastore e il suo gregge! Ognuno vuole la medesima cosa, ognuno è uguale; chi sente altrimenti, va diritto al manicomio.
In altri tempi tutti erano pazzi, dicono i più raffinati e ammiccano.
Si è saggi e si sa tutto ciò che è accaduto: così non si finisce mai di sorridere. C’è ancora chi s’arrabbia; ma ci si rappacifica presto per non sciuparsi lo stomaco.
Si possiede la piccola gioiuzza per il giorno e il piccolo piaceruzzo per la notte: ma si rispetta la salute.
Abbiamo inventato la felicità, dicono gli ultimi uomini e ammiccano.”
Pensare a voce troppo alta
Il pensiero più innovativo si fa strada nelle scuole? È circondato da un clima di riconoscimento generale? Raggiunge l’orecchio interno, anche se il processo uditivo è spesso ostinatamente lento e carico di volgarizzazione? O invece il pensiero autentico e la sua valutazione ricettiva sono impediti, perfino distrutti (Socrate nella città dell’uomo, la teoria dell’evoluzione tra i fondamentalisti), da un rifiuto a pensare di stampo politico, dogmatico e ideologico? Quale meccanismo sordido, ma comprensibile, di panico atavico, di invidia subconscia alimenta la «rivolta delle masse» e, oggi, la brutalità filistea dei media che hanno reso derisoria la stessa denominazione di «intellettuale»? La verità, insegnava il Baal-Shem Tov, è in esilio perpetuo. Forse deve esserlo. Laddove diventa troppo visibile, dove non può rifugiarsi dietro la specializzazione e la crittografia ermetica, la passione intellettuale e le sue manifestazioni provocano odio e derisione (questi impulsi si intrecciano con la storia dell’antisemitismo; gli ebrei hanno sempre pensato a voce troppo alta).
George Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero