Maciste

 Roberto Bolaño, Un romanzetto canaglia

«Sognai che Maciste era il mio fidanzato e che andavamo a spasso a Campo dei Fiori. Io al principio ero pazzamente innamorata di lui, ma a mano a mano che passeggiavamo Maciste smetteva di sembrarmi una persona interessante. Lo vedevo troppo grasso, troppo vecchio, troppo goffo, lì, a braccetto, mentre i giovani giravano intorno alla statua di Giordano Bruno o fluivano verso via dei Giubbonari o verso piazza Farnese, senza che per questo diminuisse, semmai il contrario, la moltitudine che affollava Campo dei Fiori. E allora io dicevo a Maciste che non potevo più essere la sua fidanzata. E lui girava la testa verso di me e diceva: va bene, va bene, d’accordo, con un filo di voce in cui al principio credevo di cogliere una certa tristezza, un grado di disperazione minima, ma comunque disperazione, insolita in lui, ma in cui poi notavo un accento come di orgoglio, come se Maciste, in fondo, fosse orgoglioso di me.
E allora lui mi diceva addio. E io, sconcertata, non sapevo cosa fare, soprattutto mi faceva paura lasciarlo lì, in mezzo alla moltitudine di Campo dei Fiori, solo e cieco, ma poi mi allontanavo, con rimorsi di coscienza, ma mi allontanavo, e quando ero a una decina di metri mi fermavo e lo osservavo, e allora Maciste si metteva a camminare, dondolandosi (perché in realtà era molto grasso ed era molto grande), e si perdeva fra la gente, anche se questo, a causa della sua altezza, tardava ad accadere e solo verso la fine io smettevo di vedere la sua enorme testa rotonda.
E questo era tutto. Maciste se ne andava e io rimanevo sola e vedevo me stessa intenta a piangere mentre attraversavo ponte Garibaldi, di ritorno a casa. Ormai in piazza Sonnino, pensavo che dovevo cercare un posto dove andare, dovevo procurarmi un alloggio, un nuovo lavoro, dovevo fare cose e non morire.
E allora mi svegliai e quella notte parlai con gli amici di mio fratello e dissi loro che Maciste aveva denaro ma che io non volevo più sapere nulla della faccenda. Parlai della cassaforte inesistente. Dissi che esisteva. Dissi che nessuno poteva aprirla, solo Maciste, e che l’unico modo in cui loro potevano costringerlo ad aprirla era torturandolo, e che neppure questo era sicuro perché Maciste poteva sopportare il dolore al di là di qualsiasi limite che loro, poveri delinquenti di infima categoria, conoscessero. Maciste poteva sopportare il dolore e poteva vivere tutta una vita in mezzo al dolore».

Roberto Bolaño, Un romanzetto canaglia
Traduzione di Angelo Morino

Lo scrittore vero secondo Ivanov

Roberto Bolaño

Qualcosa non quadra, pensò. Naturalmente alla notte insonne del caporedattore si aggiunse la notte di felicità e vodka di Ivanov, che decise di festeggiare il suo primo succcesso nelle peggiori bettole di Mosca e poi alla Casa dello Scrittore, dove cenò con quattro amici che sembravano i quattro cavalieri dell’Apocalisse. Da quel momento in poi a Ivanov chiesero solo racconti di fantascienza e lui, guardando bene il primo, che aveva scritto per così dire inavvertitamente, ripeté la formula con alcune varianti che ricavò a poco a poco dal grande patrimonio della letteratura russa e da certe pubblicazioni di chimica, biologia, medicina e astronomia che accumulava nella sua stanza come l’usuraio accumula i mancati pagamenti, le cambiali, gli assegni insoluti. Così divenne famoso in tutti gli angoli dell’Unione Sovietica e non tardò a diventare uno scrittore professionista, uno che viveva esclusivamente di quanto gli rendevano i libri e che andava a congressi e conferenze nelle università e nelle fabbriche mentre riviste e pubblicazioni letterarie si disputavano i suoi lavori.

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Il treno degli Urali

Roberto BolañoIvanov era iscritto al partito dal 1902. A quell’epoca aveva cercato di scrivere racconti alla maniera di Tolstoj, Čechov, Gor’kij, cioè aveva tentato di plagiarli senza troppo successo, perciò, dopo una lunga riflessione (tutta una notte d’estate), aveva astutamente deciso di scrivere alla maniera di Odoevskij e Lažečnikov. Cinquanta per cento di Odoevskij e cinquanta per cento di Lažečnikov. Non gli era andata male, in parte perché i lettori avevano dimenticato, con la mancanza di memoria tipica dei lettori, il povero Odoevskij (nato nel 1803 e morto nel 1869) e il povero Lažečnikov (nato nel 1792 e morto, come Odoevskij, nel 1869), e in parte perché la critica letteraria, acuta come sempre, non aveva estrapolato né collegato né si era accorta di nulla.
Nel 1910 Ivanov era quello che si è soliti definire uno scrittore promettente, dal quale ci si aspettavano grandi cose, ma Odoevskij e Lažečnikov, come modelli da imitare, non consentivano nulla di più e la produzione artistica di Ivanov ebbe una bella frenata o, a seconda dell’ottica, un crollo, da cui non riuscì a salvarlo neppure un nuovo ibrido che tentò in extremis: mescolare lo hoffmaniano Odoevskij e il fan di Walter Scott Lažečnikov con la stella ascendente di Gor’kij. I suoi racconti, dovette rassegnarsi, non interessavano, e le sue finanze ne risentirono, ma ancor più ne risentì il suo orgoglio. Fino alla Rivoluzione di Ottobre, Ivanov scrisse sporadicamente per riviste scientifiche, per riviste di agricoltura, fece il correttore di bozze, il venditore di lampadine elettriche, l’assistente in uno studio di avvocato, senza trascurare i suoi lavori per il partito, dove faceva praticamente qualunque cosa di cui ci fosse bisogno, da redigere e stampare volantini a trovare la carta a fare da tramite con altri scrittori simpatizzanti e con qualche compagno di viaggio. E tutto senza lamentarsi né abbandonare le sue vecchie abitudini: la visita quotidiana ai locali dove si riuniva la bohème moscovita e la vodka.

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Una mente rozza e potente

Roberto BolañoQuella sera, tuttavia, Hans gli chiese o si chiese a voce alta (era la prima volta che parlava) cosa pensassero quelli che vivevano o frequentavano la quinta dimensione. All’inizio il direttore non capì bene, benché il tedesco di Hans fosse molto migliorato da quando era andato a costruire strade e ancora di più da quando viveva a Berlino. Poi afferrò l’idea e smise di badare a Halder e a Nisa per concentrare il suo sguardo di falco o di aquila o di avvoltoio necrofago negli occhi grigi e tranquilli del giovane prussiano, che stava già formulando un’altra domanda: cosa pensavano quelli che avevano libero accesso alla sesta dimensione di quelli che si collocavano nella quinta o nella quarta? Cosa pensavano quelli che vivevano nella decima dimensione, cioè quelli che percepivano dieci dimensioni, riguardo alla musica, per esempio? Cos’era per loro Beethoven? Cos’era per loro Mozart? Cos’era per loro Bach? Probabilmente, si rispose da solo il giovane Reiter, solo rumore, un rumore come di pagine accartocciate, un rumore come di libri bruciati.
In quel momento il direttore d’orchestra alzò una mano in aria e disse o meglio sussurrò in tono confidenziale:
«Non parli di libri bruciati, caro giovanotto».
Al che Hans rispose:

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