Questa recensione è andata in onda sull’Indice di novembre. Cagnanza e padronanza di Peppe Fiore, invece, è scaricabile gratuitamente qui, ed è molto, molto, molto bello.
I racconti di Peppe Fiore riescono spesso ad essere colmi allo stesso tempo di cinismo e d’amore, spietati e insieme empatici, sarcastici e partecipi. Un’alchimia sentimentale generata dalla fusione apparentemente dissonante e invece inaspettatamente armonica tra una scrittura fatta di precisione entusiasta, affettuosa nella descrizione dei protagonisti e – attraverso la loro voce – incantata dai loro corpi, dagli oggetti e dalle merci che li circondano e che di fatto blindano i loro mondi, e lo sconforto che emana dall’autoreferenzialità delle loro vite, dall’incomunicabilità che regna sovrana ovunque, dalla sostituzione dei soggetti con gli oggetti. In Cagnanza e padronanza, rispetto alla prima raccolta, Attesa di un figlio nella vita di un giovane padre, oggi (Coniglio 2005), le atmosfere scivolano di qualche metro dal pop colorato al grigiore impiegatizio o periferico: se alcuni racconti si svolgono ancora nel perimetro angusto del benessere fatto di bisogni indotti dal marketing (Frigidaire), tra le vite rette dai valori indiscussi dell’ideologia delle performance (Risvolti poco noti della carriera universitaria in Italia), altrove compaiono anche i confini di questo mondo: la bestialità appena sotto pelle di Amarsi troppo, quella che striscia accanto alla civiltà di Forme di vita su un pianeta, passando attraverso il paragone generazionale di Il mio ultimo purè, Pirinol e Intermezzo, spingendosi a cercare l’antecedente storico della società senza via d’uscita nel racconto che dà il titolo alla raccolta, dove svetta la figura emblematica di Mario Badalassi, studente politicizzato e saccente, figlio di un’Italia fino all’altro ieri miserabile e affamata, ferina e inurbata di peso. In quel passato si celano le radici della tragedia dei personaggi di Fiore, che è la loro incapacità di esplodere fuori dai mondi nei quali si sono rinchiusi, e che deriva dal non possedere nemmeno i vocaboli, le immagini, gli oggetti per dire la disperazione.