Una suggestione su “Urbino, Nebraska”.

Urbino, Nebraska di Alessio Torino (minimum fax, 2013) è insieme un romanzo e una raccolta di quattro racconti ambientati nello stesso universo, con quattro protagonisti ritratti mentre attraversano quattro soglie cruciali delle loro vite, in tempi diversi, ma tutti coinvolti – emotivamente, più che materialmente – da uno stesso evento: il ritrovamento, nel 1987, di due ragazze, Ester e Bianca, morte di overdose su una panchina della Fortezza Albornoz a Urbino.

I quattro protagonisti sono:

1) Zena Mancini: studentessa urbinate dell’università di Urbino nel 2010: mentre cambia corso di laurea e decide di seguire la sua nuova professoressa in un viaggio a Berlino.
2) Nicola Chimenti: giovane uomo nel 1994: mentre sta per farsi frate.
3) Mattia Volponi: grafico urbinate a Vienna nel 2013: mentre tenta di tenersi alla larga da Urbino.
4) Federico: ragazzino nel 2012: mentre attraversa la morte del nonno.

I quattro attraversamenti sono influenzati dalla conoscenza della vicenda di Ester e Bianca, i quattro attraversamenti non ci sarebbero se i quattro protagonisti non fossero a conoscenza della vicenda di Ester e Bianca, o non sarebbero gli stessi attraversamenti. I quattro protagonisti non sembrano sempre coscienti di questo. La vicenda di Ester e Bianca è la fonte di una consapevolezza che sta nello sguardo sul mondo: dona la capacità di vedere il reale.
Urbino, Nebraska è una storia di soglie.

Una storia di soglie è un campo di tensioni.

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L’ultimo Gabibbo

Questa recensione è apparsa sull’Indice di ottobre.

Michele Botta ha ventisei anni, è compulsivo, nevrotico, particolarmente abile a trovare pretesti per andare in collera e a ingenerare limiti nella pazienza apparentemente illimitata della sua fidanzata; coltiva un’evidente propensione all’alcolismo, è ossessionato dai manifesti giganti del naufragando Veltroni, assuefatto alla pornografia on-line, torturato da un reflusso gastroesofageo, perseguitato da una pretendente fasciofuturista. Soprattutto Michele è stato assunto da una società di produzione televisiva, e mentre lavora al format di Qua la zampa!, un delirante reality sui cani, l’occasione della svolta gli si presenta nella forma di una fiction milionaria su un patriarca del porno. La futura classe dirigente racconta il tentativo di Michele di tenere insieme tutti i pezzi di sé al cospetto della fortunata circostanza.

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Indagine sulla rabbia

Da La futura classe dirigente, di Peppe Fiore:

La margherita della pizzeria L’Economica sfilaccia penosamente alla prima fetta. Francesca mi descrive l’ambiente di lavoro al Tempo, che è il giornale dove sta adesso. Mi immagino i suoi colleghi, me l’immagino benissimo, tutti romanacci nipoti di assessore, che passano la giornata a provarci di prammatica con lei in quanto stagista a cinquecento euro al mese. Mi incazzo, vorrei rovesciare il tavolo e fare una strage al napalm degli studenti fuorisede agli altri tavoli, per cambiare discorso le dico di Qua la zampa!, dell’intima sostanza televisiva contenuta nelle vaghe pupille dei bastardini abbandonati. Francesca dice che sarebbe una cosa carina, in fondo io mi sono sempre vantato di andare d’accordo più con le bestie che con gli esseri umani. Musica maestro: mi incazzo come una iena. Che ne sa lei di quello che significa lavorare sui format, i ritmi fordisti, l’intelligenza al servizio dello stereotipo, lo stress eccetera eccetera? Gianluca ha fatto La talpa e dopo tre mesi vedeva Paola Perego ovunque.

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NOI

Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Minimum Fax

Facciamo passare qualche giorno, aspettiamo che tutti si persuadano che l’emergenza è passata, che si è trattato di un paio di bravate e niente più. Poi, un giorno che la scuola è aperta anche al pomeriggio, appena l’ultima campanella suona e gli studenti escono, raggiungiamo la palestra interna, squarciamo con un coltello da cucina il rivestimento in similpelle del materasso che attutisce le cadute del salto in alto, estraiamo la gommapiuma compressa e la sparpagliamo in giro. Prima di darle fuoco, Volo scrive sul muro con un pennarello nero la data e l’ora, perché non ci siano equivoci, e poi il nostro messaggio:

BEATO CHI CI CREDE, NOI NO NON CI CREDIAMO

E più sotto, a mo’ di firma: NOI.

L’idea di usare un verso della sigla di Di nuovo tante scuse è stata del compagno Raggio. È la prosecuzione della logica dell’alfamuto, ovvero una rivisitazione in chiave politica della stupidità italiana, in questo caso le parole di una canzonetta. Ci piace pensare che chi leggerà non potrà non sentirsi dentro le voci di Raimondo Vianello e Sandra Mondaini. È una beffa, una cosa indecente. NOI, invece, è il nome della nostra microcellula virale. Coordinarci durante queste prime azioni di lotta – uno sulla soglia della porta a fare il palo comunicando tramite l’alfamuto un eventuale pericolo, la risposta silenziosa del compagno – ci ha insegnato che noi è la parola in cui coesistono la distruzione del soggetto individuale e l’orgoglio di essere compagni: per me che dico sempre io, che vivo chiuso nel raglio asinino, pensare noi è sbalorditivo. NOI è anche l’acronimo di Nucleo Osceno Italiano: nucleo identifica la solidità; osceno è l’unico tempo che abbia senso vivere; italiano è ciò che ci indigna e ciò in cui siamo immersi.

Giorgio Vasta, Il tempo materiale

Fare argine

Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Minimum Fax

La tua immaginazione produce disfacimento, aggiunge.
Non è vero.
Sì che è vero. Perché sei come me: cerchi la lotta.
Stiamo accanto e non ci guardiamo; lui nel nido, io vicino al cespuglio.
Sei attratto dalla distruzione, continua.
Non è vero, ripeto.
Allora perché non hai mai immaginato che dal tuo filo spinato potesse generarsi un’infezione buona?
L’infezione non può essere buona, dico subito.
Mentre se ne sta zitto, le piume scagliose che nel respiro gli si sollevano sul petto e si riabbassano, so che non ho ragione ma devo fare argine, prendere tempo.
Nimbo, mi dice passando a una tonalità più alta, ed è la prima volta che qualcuno mi chiama così. Tu sei venuto qui a cercare il sesso e la lotta, continua. Per te sesso e lotta sono l’unica infezione possibile, l’unica direzione nella quale muoversi.

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Enfasi

Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Minimum Fax

Dopo la quinta ora facciamo la strada insieme. Scarmiglia sta zitto, Bocca discute, io rispondo. Parliamo ancora dei comunicati, della loro lingua. Bocca ne è conquistato, gli piace l’enfasi, le loro frasi precise e feroci.
Lo ascolto, ci penso, mi rendo conto che se anche ne avverto la fascinazione nella loro lingua c’è qualcosa che qualcosa che mi mette in imbarazzo, una pena per il dogmatismo imparaticcio, per l’enfasi puerile. Eppure io per primo sono enfatico. Non posso non esserlo perché so, come lo sanno le Br, che l’enfasi è l’unico modo per accedere alla visione, alla profezia della storia. Certo, si diventa ridicoli, ma non ci sono alternative: tra l’ironia e il ridicolo scelgo il ridicolo.

Giorgio Vasta, Il tempo materiale

Contro l’ironia

Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Minimum Fax

In questa polaroid siamo tutti ironici. E a me l’ironia fa male. Anzi, la odio. Non solo io, anche Scarmiglia e Bocca. Perché ce n’è sempre di più, troppa, la nuova ironia italiana che brilla su tutti i musi, in tutte le frasi, che ogni giorno lotta contro l’ideologia, le divora la testa, e in pochi anni dell’ideologia non resterà più niente, l’ironia sarà la nostra unica risorsa e la nostra sconfitta, la nostra camicia di forza, e staremo tutti nella stessa accordatura ironico-cinica, nel disincanto, prevedendo perfettamente le modalità di innesco della battuta, la tempistica migliore, lo smorzamento improvviso che lascia declinare l’allusione, sempre partecipi e assenti, acutissimi e corrotti: rassegnati.

Giorgio Vasta, Il tempo materiale

Come si diventa ciò che si è

Una cosa piccolaUna versione leggermente ridotta di questa recensione di Una cosa piccola che sta per esplodere di Paolo Cognetti (Minimum Fax, 2007) è uscita sul numero di ottobre dell’Indice.

L’erede altera e anoressica di una famiglia benestante, il figlio di un meccanico alcolista e violento, una bambina che scrive racconti sul padre scomparso, un ragazzino che assiste alla separazione dei genitori, una giovane donna che afferma la propria indipendenza: sono i protagonisti dei cinque racconti che compongono Una cosa piccola che sta per esplodere, secondo libro di Paolo Cognetti. Il filo conduttore delle storie è l’adolescenza, che qui non è una palude di tempeste amorose e ribellioni incomprese, bensì una faccenda serissima con la quale si confrontano giovani esseri umani caparbi e silenziosi, talmente seria che sembra rendersene conto anche qualche adulto. L’adolescenza descritta in questi racconti più che un periodo è un movimento: una questione di spinte centrifughe e tempismo, di soglie che definiscono la personalità di chi le attraversa. «Se non sarò me stesso, chi lo sarà per me? Ma se sarò me stesso, chi mai sarò? E se non ora, quando?» recita l’epigrafe tratta dal Talmud di Babilonia.
Forte di una prosa intensa e controllata, Cognetti si immerge nelle vite dei suoi personaggi con umanità e rispetto – il che, per inciso, implica la capacità di dar vita a figure che abbiano personalità e autonomia – e, nello stesso tempo, con la consapevolezza di trovarsi di fronte a un fenomeno naturale. Ed è tra le pieghe di questo spirito naturalista che si muove la suggestione più malinconica di Una cosa piccola che sta per esplodere: la formazione di un’identità forte e l’approdo sulla terra ferma della maturità non sono risultati garantiti; accanto ai protagonisti compaiono personaggi che non mostrano, durante la transizione, l’autocontrollo necessario a vivere un’esistenza ordinata, o che non sembrano avere abbastanza spinta per uscire dall’orbita dell’infanzia e diventare davvero adulti. E l’aspetto più turbante di questo lato oscuro del libro è il velato determinismo che lo pervade, la sensazione che la stessa forza di volontà non sia altro che uno stato di grazia indipendente dalle nostre scelte, una sensazione che si prova anche guardando ai protagonisti. Al termine della sua impresa, Margot di Pelleossa assomiglia alla leader di se stessa che era già da prima: il suo è un salto di comprensione, ma le condizioni per compierlo e saperne trarre vantaggio erano già in lei. Mina, la protagonista del racconto che dà il titolo al libro, reca nel nome la promessa di un’esplosione, ma ciò che vediamo ancor più chiaramente sin dalla sua infanzia è un corpo concentrato e solido, una biglia come quella che lei stessa evocherà in uno dei suoi racconti, una creatura che sembra fatta apposta per attraversare indenne le sventure. In Tutte le cose che non so di lei, il racconto che chiude il libro, Gilda, matrona di una cascina e vedova di un uomo che non era mai cresciuto, sembra attendere il momento della ribellione della figlia Anita con il senso d’inevitabilità con cui un contadino attende una stagione: «Eccola qui, pensa. La bugia. È la bugia che stavo aspettando». Ma sembra sapere altrettanto bene che il suo è un ruolo in una storia già scritta e che il suo tentativo di reprimere la rivolta è destinato a fallire, e tuttavia è necessario: la vittoria di Anita sarà il compimento della sua formazione.

Peggio di un nemico

«Io il meccanico non lo faccio», dice Diego, troncando il discorso. È più arrabbiato adesso di quanto lo sia stato per tutto il giorno. È arrabbiato perché non capisce, che non è come essere arrabbiati per qualcosa che non ti piace. Che senso ha fare un gesto del genere, rovinarti il compleanno e poi ripararti la moto? È un modo per chiedere scusa? È un modo per dire: sarò sempre più bravo di te? Un padre è peggio di un nemico, pensa. Non puoi combatterlo ad armi pari. Non puoi scappare e nemmeno ignorarlo, perché ti segue dovunque vai. E alla fine, anche quando sarà stanco e ferito, ti mancherà sempre il coraggio di dargli il colpo di grazia. Diego immagina la vita degli adulti complicata come le automobili moderne: troppa plastica, troppa elettronica, e tutta quella potenza affidata a un sistema così delicato. Basta uno scherzo dell’impianto elettrico e ti ritrovi schiantato contro un muro senza nemmeno accorgerti che qualcosa non va. Lui ha sempre pensato alla sua, di vita, come alla meccanica elementare e perfetta del motore a due tempi: il cilindro che si riempie di miscela, la miscela compressa che esplode, i gas di scarico che lasciano il cilindro vuoto. Se c’è qualcosa da imparare, dopo questa giornata, è che la vita non sarà più così. Mai più.

Paolo Cognetti, Una cosa piccola che sta per esplodere