Questa recensione compare sull’Indice di febbraio.
Il protagonista del romanzo, Emiliano, esce dal carcere dopo aver scontato sedici anni per un omicidio che non ha commesso e del quale nemmeno desidera più sapere chi sia il colpevole. Fuori dal carcere, con una pistola in pugno, lo attende Omero, il padre del ragazzo ucciso. Ma Emiliano, l’arma puntata in faccia, si dichiara innocente, e Omero è perduto, perché il passato deve in qualche modo passare, e lui si è aggrappato in tutti quegli anni all’idea della vendetta: qualcosa che poteva permettergli di chiudere una volta per tutte i conti con il dolore. Tutto ciò che Omero può fare, ora, è stringere un nuovo patto con se stesso, inventarsi una nuova missione da portare a termine per poter poi sentirsi libero: deve trovare il vero assassino. Ed è intenzionato a coinvolgere Emiliano, perché Emiliano è una sonda da immergere nelle strade oscure del passato, ma è anche e soprattutto l’intero mondo che a Omero è rimasto. Emiliano, prostrato dalla vita, passivamente diviso tra l’istinto di sopravvivenza e una stanchezza assoluta che quasi lo rende disposto a farsi ammazzare pur di essere lasciato in pace – «Non l’ho ucciso io e mi sono fatto sedici anni di galera. Ho pagato abbastanza» – si lascia convincere per sfinimento dall’insistenza di Omero, che somiglia, dice, a «quei cani che prendono calci ma continuano a seguire il padrone e quando li si guarda negli occhi non si capisce perché».