Ordo amoris (Allogenesi)

Frida Kahlo, Abrazo Amoroso

L’uomo può amare una cosa, un valore come quello della conoscenza, può amare questa o quell’altra immagine della natura, può amare un uomo come amico o in qualsiasi altro modo: tutto ciò significa sempre che egli nel suo centro personale esce da sé come unità corporea e che tramite e in tale azione egli coopera ad affermare la tendenza di un oggetto altro da sé verso una perfezione ad esso appropriata; coopera inoltre a realizzare tale tendenza, a sostenerla e a benedirla.

Max Scheler, Ordo amoris, 1914-1916

Il significato creativo

Chi dicesse, pertanto, che l’amore altro non è che una «reazione» a posteriori ad un valore avvertito, disconescerebbe la natura del suo movimento, già delineata con tanta precisione da Platone! L’amore non consiste nel «fissare», per così dire, in modo affermativo ed emozionale un valore dato che sta dinanzi a noi. Ma neanche si volge a oggetti dati (o persone reali) esclusivamente in ragione dei valori che essi possiedono e che siano già «dati» ancor prima che s’instauri l’amore. In questa idea c’è ancora una volta quel «fissare» il fatto prettamente empirico, che all’amore è tanto alieno. Nell’amore noi avvertiamo certamente il valore positivo dell’oggetto amato, per esempio la bellezza, la grazia, la bontà d’una persona; ma questo possiamo farlo anche senza alcun amore per quella persona. L’amore esiste solamente là dove al valore già dato «come reale» nella persona si aggiunge ancora il movimento, l’intenzione verso ulteriori valori «superiori» possibili, valori superiori rispetto a quelli già esistenti e dati – ma non dati di già come qualità positive.

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L’integrità della coscienza

E’ uscita su MicroMega un’intervista a Roberta De Monticelli, che è risposta alla risposta di Betori alla prima lettera della filosofa, pubblicata sul Foglio e ridenominata, in rete e fuori, “Abiura di una cristiana laica”. E’ una bella intervista: vi si trovano in forma più espansa quei concetti che ben conosce chi segue De Monticelli da qualche anno e ha letto la Lettera sullo spirito e l’ideologia, concetti che però rimanevano contratti nella lettera pubblicata sul Foglio: il rapporto tra Dio e i valori, il nichilismo della Chiesa contemporanea e anche la risposta a chi si domandava perché De Monticelli ci avesse messo tanto a dare l’addio a qualsivoglia collaborazione con la Chiesa.

«Lungi dal liberarmi da quel dubbio, e pur restando intatta la mia gratitudine per tutti quelli che, fuori e dentro la Chiesa, hanno trovato non infondate le mie domande, la maggior parte delle risposte che ho ricevuto mi ci hanno ricacciata in pieno. Non tanto per le stroncature, che pure ci sono state, quanto perché in troppe quasi-risposte mi si mostrava, lo dico con grande tristezza, il volto bifido dell’ipocrisia, paradossalmente di un’ipocrisia che non sa più di esserlo, che forse è in buona fede – ma questo è anche peggio, perché è come se l’integrità della coscienza fosse incrinata dalla sudditanza del cuore (che è cosa toto genere diversa dall’obbedienza al vero). E poi il dolciastro della melassa solidaristica, a condire il rifiuto di onorare la solitudine della coscienza personale, e la confusa dialettica della relazione a offuscare la negazione della responsabilità ultima che ciascuno porta di se stesso».

L’intervista completa

Nichilismi, infamie

Questa lettera di Roberta De Monticelli è comparsa ieri sul Foglio con il titolo “Abiura di una cristiana laica”.

Questo è un addio. A molti cari amici – in quanto cattolici. Non in quanto amici, e del resto sarebbe un fatto privato. E’ un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica italiana, un addio anche accorato a tutti i religiosi cui debbo gratitudine profonda per avermi fatto conoscere uno dei fondamenti della vita spirituale, e la bellezza. La bellezza delle loro anime e quella dei loro monasteri – la più bella, la più ricca, e oggi, purtroppo, la più deserta eredità del cattolicesimo italiano. O diciamo meglio del nostro cristianesimo. L’eredità di Benedetto, di Pier Damiani, di Francesco, dei sette nobili padri cortesi che fondarono la comunità dei Servi di Maria, di tanti altri uomini e donne che furono “contenti nei pensier contemplativi”. E anche l’eredità di mistici di altre lingue e radici, l’eredità, tanto preziosa ai filosofi, di una Edith Stein, carmelitana che si scalzò sulle tracce della grande Teresa d’Avila.

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Ritorno alla terza meditazione in settembre

L’intera vita emotiva viene piuttosto vista come un caos di eventi totalmente ciechi che si svolgono in noi al modo di un qualsiasi processo naturale, di eventi che devono essere caso mai orientati con una qualche tecnica per ottenere un vantaggio oppure per evitare un danno, ma a cui non si deve affatto prestare ascolto, magari facendo attenzione a capire che cosa “intendono”, che cosa ci vogliono dire, che cosa ci consigliano o sconsigliano, qual è la loro mèta, che cosa indicano! È possibile stare in ascolto di quanto un sentimento ci dice quando sentiamo la bellezza di un paesaggio e di un’opera d’arte, oppure quando sentiamo le qualità peculiari di una persona che ci sta davanti; intendo dire che è possibile percorrere questo sentimento stando in ascolto e accettare in modo sereno l’esito a cui tale percorso ci conduce. In tal senso stare in ascolto significa avere finezza d’udito per ciò che ci sta di fronte e verificare in modo rigoroso se quel che noi esperiamo come chiaro, evidente e determinato, è veramente tale. È allora possibile una cultura che sappia discernere in modo critico ciò che in un determinato sentimento è “autentico” e ciò che è “inautentico”, ciò che appartiene al semplice puro sentire e ciò che è invece solo un aggiunta del desiderio, della volontà orientata verso determinati fini, oppure della riflessione e del giudizio. Tutto ciò è andato costitutivamente perduto per l’uomo moderno. Fin dal principio egli non ha fiducia in ciò che nel sentimento potrebbe udire, né dimostra di prenderlo sul serio.

Max Scheler, Ordo amoris

Che due palle, Orazio

Spesso chi crede che la filosofia sia quella che insegnano pessimi professori di liceo abbandona ogni confronto dialettico di un certo spessore con la ritrita citazione “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante la tua filosofia ne possa sognare”. Fermo restando che 1. Shakespeare andrebbe anche letto oltre che citato; 2. della filosofia di Orazio risponde Orazio, e non l’interlocutore di turno; 3. un buon modo per distruggere scrittori anche interessanti come Shakespeare Wilde o Nietzsche è continuare a fare delle loro frasi slogan che alimentano la noia e infine la nausea; andrebbe spiegato di volta in volta al ripetitore d’aforismi – giusto per non rendersi complici della stagnazione – che il problema della filosofia non si pone tanto quando in cielo e in terra ci sono più cose che nella filosofia – eventualità serenamente considerata dal filosofare sui limiti della filosofia – bensì quando in cielo e in terra ci sono meno cose che nella filosofia. Il problema di avere nel mondo più cose di quante il proprio schemino ne consideri è un problema dell’ideologia, che ripudia la filosofia allorché questa potrebbe dimostrare che, appunto, ci sono più domande di quante l’ideologia ne possa tollerare.

Tu quoque Socrate

Si veda il Critone. Socrate è in galera, condannato alla cicuta. Critone vuole aiutarlo a fuggire, altrimenti gli Ateniesi lo considereranno un traditore degli amici. Socrate gli dice: ma ti rendi conto che non dovresti vergognarti di quello che pensa la gente di te, se ha torto? Ti rendi conto che dovresti vergognarti di vergognarti di una cosa come questa? Io non fuggo: ho stretto un patto con le leggi di Atene, ho scelto io di abitare qui, di sottostare alle leggi e di rischiare. Ora mi prendo le mie responsabilità. Non riesco a fare altrimenti: questa roba mi incatena come i ritmi dei coribanti.

L’interlocutore socratico, in genere, si vergogna solo di ciò che è sanzionato con il biasimo da parte della comunità, cioè si vergogna dei contenuti del suo pensiero e delle sue azioni, non della forma del suo ragionare. E si vergogna dei suoi pensieri biasimevoli solo se sono espressi o intuiti, e delle sue azioni biasimevoli solo se qualcuno vi assiste: se Socrate non fuggisse, Critone, pur se riconoscesse dentro di sé la validità dei ragionamenti socratici, si vergognerebbe di fronte agli Ateniesi.
Diversamente Socrate controlla continuamente Socrate sul piano formale: ho stretto un patto, dovrò rispettarlo; non posso permettermi X, non stringerò un patto in cui mi impegno a fare X. A Socrate non sembra interessare il biasimo o la lode sui contenuti: a Socrate sembra interessare solo la correttezza deduttiva, di cui lui stesso si fa testimone. Stante quella, lui non ha problemi.

Fila tutto liscio, a quanto pare, nel Critone. Però c’è da far caso a come fila tutto liscio. In questo dialogo non ci sono solo Socrate, Critone e gli Ateniesi di Critone.
Prima di tutto Socrate fa comparire il fantasma dell’Esperto, che è l’unico, dice, di fronte al quale ci si deve vergognare: l’Esperto sa riconoscere il buono stato dell’anima; tradotto dal socratico: sa vedere la simmetria delle opinioni e delle azioni.
Ora, non è che questo Esperto che non si sa dove stia ne sappia più di Socrate, dato che Socrate quella correttezza deduttiva la sta effettivamente mettendo in pratica. Ugualmente Socrate chiama a testimone questo fantomatico Esperto ponendolo come una figura esterna, probabilmente intendendo il dio.
Dopodiché, parlando degli impegni che ha preso con le leggi di Atene, Socrate fa comparire le Leggi. Dice a Critone: pensa se io fossi lì lì per fuggire e in quel momento arrivassero le Leggi a biasimarmi per la mia incoerenza. Non avrebbero ragione di svergognarmi?
E poi, quando morirò e andrò nell’Ade, non arriveranno le Leggi dell’Ade a farmi i medesimi discorsi? Caro Critone, come vedi non può fare.

Personificazioni. Queste sono personificazioni.
Nemmeno Socrate è riuscito a farsi unico testimone di se stesso. Nemmeno lui è riuscito a fare a meno dell’idea di uno sguardo esterno che vedesse la sua coerenza.

Pensare a voce troppo alta

Il pensiero più innovativo si fa strada nelle scuole? È circondato da un clima di riconoscimento generale? Raggiunge l’orecchio interno, anche se il processo uditivo è spesso ostinatamente lento e carico di volgarizzazione? O invece il pensiero autentico e la sua valutazione ricettiva sono impediti, perfino distrutti (Socrate nella città dell’uomo, la teoria dell’evoluzione tra i fondamentalisti), da un rifiuto a pensare di stampo politico, dogmatico e ideologico? Quale meccanismo sordido, ma comprensibile, di panico atavico, di invidia subconscia alimenta la «rivolta delle masse» e, oggi, la brutalità filistea dei media che hanno reso derisoria la stessa denominazione di «intellettuale»? La verità, insegnava il Baal-Shem Tov, è in esilio perpetuo. Forse deve esserlo. Laddove diventa troppo visibile, dove non può rifugiarsi dietro la specializzazione e la crittografia ermetica, la passione intellettuale e le sue manifestazioni provocano odio e derisione (questi impulsi si intrecciano con la storia dell’antisemitismo; gli ebrei hanno sempre pensato a voce troppo alta).

George Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero

La modestia

«Aprire un giornale, parlare con un amico, iscrivere un figlio a una scuola, far visita a un parente in ospedale o interrogarsi su cosa faremo di un pomeriggio di libertà sono alcune fra le infinite occasioni di imbattersi in questioni che solo la fretta, la modestia o… la mancanza di abitudine al pensare, appunto, ci impediscono di riconoscere come filosofiche. Metafisiche addirittura alcune, teologiche altre, psicologiche, esistenziali, estetiche, etiche. E infine, molto più di quanto non sembri, questioni di logica. Che in definitiva è l’etica del pensiero, senza la quale non c’è responsabilità nell’uso delle parole. Non c’è coscienza del loro peso, del loro contributo alla verità e alla falsità di quello che diciamo.

Proprio per questo, cominceremo “leggeramente”, un avverbio che volentieri il padre della nostra lingua, Dante, associa al verbo “ragionare”. Cominceremo dall’allegria che fa lieve la mente, perché “allegria” si apparenta con “alleggerire”. Se dobbiamo credere ad Agostino, di cui si è festeggiato nel 2005 il milleseicentocinquantesimo anniversario della nascita, “Nutre la mente solo ciò che la rallegra”.»

Roberta De Monticelli, “Il sonnambulismo e la veglia della mente”, in Nulla appare invano

De rerum paura (episodio 5 e ultimo)

Non facciamo i ciarlatani e dichiariamo francamente che a questo mondo non si capisce nulla. Soltanto gli imbecilli e i ciarlatani sanno e comprendono tutto.
Anton Čechov

Socrate e Joseph

Il teologo Joseph Ratzinger ha recentemente dichiarato che il cristianesimo non è una religione intellettualistica. Coerentemente con l’incoerenza, in molti, negli ultimi tempi, si sono riempiti la bocca con termini quali “natura”, “diritto naturale”, “relativismo”, “contronatura”, arrogandosi il diritto di definire la vita altrui con questi termini, combattendo la battaglia per nominare le cose, battaglia nella quale vince sempre chi ha più fretta. Chiedo scusa a me stesso, ma di questa gente io purtroppo non riesco ad avere alcun rispetto. Ma non è questo il punto. Scrivendo i post del De rerum paura ero consapevole che essi, plausibilmente, avrebbero contenuto errori logici, avrebbero potuto essere contestati mediante esposizioni diverse, probabilmente altrettanto, se non più coerenti, di quelle da me presentate. Esiste una vasta letteratura filosofica e scientifica nella quale è possibile rinvenire radici che sviluppino piante antagoniste. Sono esistiti pensatori enormi che probabilmente avrebbero soffiato via questo mio castello di carte solo respirando. E allora?

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