La ragazza del nord è colta, curiosa, è politicamente attiva, fa volontariato. E in una comunità di recupero, a Milano, conosce Alfredo, eroinomane romano in via di disintossicazione. Tra i due, apparentemente cosi diversi, sboccia l’amore. Per Alfredo liberarsi dal ruolo che si è ritagliato e in cui si trova ormai imprigionato è l’unico modo di salvarsi la vita. Con spirito di abnegazione l’una e riluttanza l’altro, i due si immergono in quel caos di insicurezza e paura che spesso si cela dietro alle maschere che indossiamo per sopravvivere a noi stessi e al mondo. La ragazza del nord non potrà sottrarsi alla resa dei conti con il suo lato oscuro. Il romanzo è narrato con due voci parallele che nel corso della storia si contaminano l’un l’altra: l’ottimismo straripante della ragazza del nord sembra contagiare, in una certa misura, anche la voce ora laconica ora rabbiosa di Alfredo; a sua volta l’incapacità d’agire di Alfredo si riflette sulla voce della protagonista. La contaminazione dei toni è dunque specchio della direzione in cui di volta in volta si muove il reciproco contagio emotivo. Il linguaggio è inteso ora come chiave per scoprire il senso della vita, ora come possibilità di invenzione, menzogna, barriera di superficialità eretta a suon di “ti amo” e “sto bene” per difendersi dal caos interiore che non si vuole esplorare, o ancora insulto che chiude ogni porta al dialogo donando un’arrogante sensazione di potenza. Emerge la disperata compresenza di incapacità di stare soli e impossibilità di dare fiducia, viene alla luce il male naturale e contagioso di un mondo teso tra menzogna e dolore. E il dolore è talmente intenso che le parole superficiali smettono di essere un male, e diventano una agognata sostanza con la quale narcotizzarsi.
Questa recensione comparve sull’Indice del maggio 2008, ma non fu mai pubblicata su New-Clear Wordz.