Federica Sgaggio ha scritto qui del servizio di Mattino 5 sul giudice Raimondo Mesiano; ha sgombrato il campo da una serie di etichette e interpretazioni fuorvianti che si erano appiccicate al caso e, così facendo, ha aperto uno spazio di chiarezza per la riflessione. Ne approfitto: oltre all’intimidazione di cui scrive Federica, mi pare che il servizio mostri qualcos’altro. Non qualcosa di nuovo in senso stretto, perché è qualcosa di coerente con un’ideologia già veduta, e già scontata, e già invisibile. Non sono nemmeno sicuro che si possa parlare di intento: è difficile stabilire se vi sia intenzione o sintomo, coscienza o incoscienza, ma in quel servizio non riesco a non vedere all’opera il tentativo di ridurre un ordine logico, ovvero un ordine universale – la legge -, all’individuo. E, necessariamente, il tentativo di ridurre un ordine universale equivale al tentativo di annientarlo.
Il servizio riduce la legge a un uomo in particolare, riduce la matematica a corpo, vizi, abitudini, colore dei calzetti. E mi pare che qui ci sia pure, implicita, un’identificazione tra persona umana e desiderio, quindi: riduzione della legge alla persona e riduzione della persona alle sue motivazioni personali. E dunque: riduzione della legge a motivazioni personali. Sei giudice, ma sei uomo, dunque chi sei tu per giudicare? La legge, sì, ma la legge non esiste, non c’è l’universale, non c’è l’ordine logico. E, dove non c’è ordine logico, non ci sono ragioni, e allora il più grosso non si deve toccare, lui è là e basta, e tu no. Sei invidioso?
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Ormai più
Ormai più bagnati non si può diventare; solo bisogna cercare di muoversi il meno possibile, e soprattutto di non fare movimenti nuovi, perché non accada che qualche altra porzione di pelle venga senza necessità a contatto con gli abiti zuppi e gelidi.
È fortuna che oggi non tira vento. Strano, in qualche modo si ha sempre l’impressione di essere fortunati, che una qualche circostanza, magari infinitesima, ci trattenga sull’orlo della disperazione e ci conceda di vivere. Piove, ma non tira vento. Oppure, piove e tira vento: ma sai che stasera tocca a te il supplemento di zuppa, e allora anche oggi trovi la forza di tirar sera. O ancora, pioggi, vento, e la fame consueta, e allora pensi che se proprio dovessi, se proprio non ti sentissi più altro nel cuore che sofferenza e noia, come a volte succede, che pare veramente di giacere sul fondo; ebbene, anche allora noi pensiamo che se vogliamo, in qualunque momento, possiamo pur sempre andare a toccare il reticolato elettrico, o buttarci sotto i treni in manovra, e allora finirebbe di piovere.
[…]
Lo sappiamo, che domani sarà come oggi: forse pioverà un po’ di più o un po’ di meno, o forse invece di scavar terra andremo al Carburo o a scaricar mattoni. O domani può anche finire la guerra, o noi essere tutti uccisi, o trasferiti in un altro campo, o capitare qualcuno di quei grandi rinnovamenti che, da che Lager è Lager, vengono infaticabilmente pronosticati imminenti e sicuri. Ma chi mai potrebbe seriamente pensare a domani?
La memoria è uno strumento curioso: finché sono stato in campo, mi hanno danzato per il capo due versi che ha scritto un mio amico molto tempo fa:
…infin che un giorno
senso non avrà più dire: domani.
Qui è così. Sapete come si dice «mai» nel gergo del campo? «Morgen früh», domani mattina.
Primo Levi, Se questo è un uomo
Fèmili déi
[…] non bisogna stupirsi, né sospettare la malafede, quando le esortazioni alle virtù tradizionali della religione, della patria e della famiglia provengono da quelle stesse agenzie educative che presentano abitualmente quelle virtù come l’ultimo rifugio dei perdenti. A dare il massimo risalto al Family Day (un’iniziativa che porta nel suo stesso titolo il segno della resa alla logica della società dello spettacolo) sono stati i telegiornali delle reti Mediaset: cioè precisamente quell’apparato mediatico che attraverso i suoi specifici ‘valori’ – l’edonismo, il delirio consumistico, l’irresponsabilità nei confronti dei propri simili, l’irreligiosità – ha portato contro la famiglia un attacco infinitamente più violento di quelli che con le deboli armi della filosofia erano stati portati dai libertini o da Engels (prova ne è il fatto che la crisi della famiglia non comincia affatto nel Settecento o mezzo secolo fa, quando anche i comunisti si sposavano, battezzavano i figli e si conformavano a una morale puritana, e ipocrita, non molto diversa da quella dei cattolici, ma appunto nell’età del bombardamento mediatico, che insegna a trattare ogni valore, ogni virtù non indirizzata all’utile – e la dedizione per la famiglia è ovviamente una di queste virtù – come uno spreco di tempo). Chiunque abbia il fegato di vedere una puntata di programmi come Buona domenica (Canale 5) o La vita in diretta (Rai Uno) non ha bisogno d’altro per capire chi sono i responsabili della distruzione dei valori morali che stanno alla base della famiglia come degli altri istituti in cui si è organizzata sinora la vita civile: chi cioè ha, oltre che la forza, l’interesse a perpetrare questa distruzione. E tuttavia sarebbe sbagliato pensare che questa contraddizione tra le parole e i fatti venga consciamente, ipocritamente mascherata da coloro che hanno interesse a mantenere in vita sia la famiglia sia il sistema mediatico che la tiene in assedio. Si capisce soltanto ciò che si è preparati a capire, dunque non quelle verità che minacciano di dimostrare delirante un intero modo di vita (o, che è lo stesso, un intero modo di produzione). Risolvere o anche solo vedere questa contraddizione significherebbe criticare la vita moderna alla radice, cioè – per chi ha il potere e il denaro – perdere potere e denaro. La falsa coscienza, che è sempre una coscienza candida, scongiura questo redde rationem.
Claudio Giunta, L’assedio del presente
Il dubbio atroce dell'anarchico
Mi sono capitati per le mani due libri appena usciti: due romanzi, di due autori nuovi per due case editrici diverse. Di un autore la casa editrice pubblica la foto in terza di copertina. E la pubblica anche a pagina 4: tutta pagina 4. Autore carino, aria scazzata, vagamente persa. Leggi le note autobiografiche e scopri che ha trent’anni ed è musicista. Leggi il romanzo e trovi frasi come “allora gli accadde la cosa più assurda di tutta la sua vita”.
L’altro romanzo, consigliatomi da più parti, è di uno sceneggiatore televisivo di affermato successo, ed è pubblicato da una casa editrice che si occupa di cinema e di corsi di scrittura. Una casa editrice trasversale. Il risultato è il romanzo che ho in mano: una lingua non irragionevole ma appiattita su una forma da script, punteggiatura completamente sballata e – orrore – un recidivo doppio punto esclamativo.
Vai in libreria, butti un occhio sul banco delle novità e quando prendi in mano qualcosa hai paura di leggere la biografia: copywriter quando va bene; impiegati mediaset, musicisti, scultori quando va male. Bene o male, si pensa a lettori ai quali di leggere un romanzo non è mai fregato nulla. Tanto tutto – musica, direzione artistica, narrativa, poesia, teatro – è la stessa cosa: così ho letto sul sito di un tuttofare, un grumo di accenti assenti e discordanze di genere tenuto insieme dagli elastici dell’ideologia.
Il venir meno della forma letteraria nell’inseguimento della forma estranea, spesso televisiva – o anzi nella riproposizione della forma estranea, spesso televisiva, dato che vien da pensare che l’autore produca ciò che rumina –, non è argomento inedito. Inedita forse è la quantità di materiale riversato sul mercato editoriale in questo momento, e quindi la quantità di danaro che le case editrici decidono di investire in testi non-proprio-letterari (a.k.a. quantità di danaro che decidono di non investire in testi proprio-letterari).
Il dubbio atroce dell’anarchico rimane sempre quello: il prezzo della libertà è un livellamento verso il basso? è la fine della critica e della mediazione?
Post scriptum
Penso al prossimo vudéi del signor Grillo e alla proposta di abolire i fondi statali alla stampa – anche se quelle di Grillo non hanno quasi mai l’aspetto di proposte, bensì di mattanze al machete. Penso al pubblico di italia uno che decreta la sopravvivenza di qualcuno e la scomparsa di qualcun altro, ma senza che gli vengano forniti gli strumenti per abbracciare un orizzonte più vasto. Penso che poi in fondo è giusto. Davvero. Solo che fa schifo.
Che due palle, Orazio
Spesso chi crede che la filosofia sia quella che insegnano pessimi professori di liceo abbandona ogni confronto dialettico di un certo spessore con la ritrita citazione “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante la tua filosofia ne possa sognare”. Fermo restando che 1. Shakespeare andrebbe anche letto oltre che citato; 2. della filosofia di Orazio risponde Orazio, e non l’interlocutore di turno; 3. un buon modo per distruggere scrittori anche interessanti come Shakespeare Wilde o Nietzsche è continuare a fare delle loro frasi slogan che alimentano la noia e infine la nausea; andrebbe spiegato di volta in volta al ripetitore d’aforismi – giusto per non rendersi complici della stagnazione – che il problema della filosofia non si pone tanto quando in cielo e in terra ci sono più cose che nella filosofia – eventualità serenamente considerata dal filosofare sui limiti della filosofia – bensì quando in cielo e in terra ci sono meno cose che nella filosofia. Il problema di avere nel mondo più cose di quante il proprio schemino ne consideri è un problema dell’ideologia, che ripudia la filosofia allorché questa potrebbe dimostrare che, appunto, ci sono più domande di quante l’ideologia ne possa tollerare.
Pensare a voce troppo alta
Il pensiero più innovativo si fa strada nelle scuole? È circondato da un clima di riconoscimento generale? Raggiunge l’orecchio interno, anche se il processo uditivo è spesso ostinatamente lento e carico di volgarizzazione? O invece il pensiero autentico e la sua valutazione ricettiva sono impediti, perfino distrutti (Socrate nella città dell’uomo, la teoria dell’evoluzione tra i fondamentalisti), da un rifiuto a pensare di stampo politico, dogmatico e ideologico? Quale meccanismo sordido, ma comprensibile, di panico atavico, di invidia subconscia alimenta la «rivolta delle masse» e, oggi, la brutalità filistea dei media che hanno reso derisoria la stessa denominazione di «intellettuale»? La verità, insegnava il Baal-Shem Tov, è in esilio perpetuo. Forse deve esserlo. Laddove diventa troppo visibile, dove non può rifugiarsi dietro la specializzazione e la crittografia ermetica, la passione intellettuale e le sue manifestazioni provocano odio e derisione (questi impulsi si intrecciano con la storia dell’antisemitismo; gli ebrei hanno sempre pensato a voce troppo alta).
George Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero
L’aria generale
Questi attacchi alla tradizione razionalista occidentale sono particolari sotto molto aspetti. Innanzitutto, il movimento in questione è in gran parte limitato a diverse discipline umanistiche, come anche ad alcuni dipartimenti di scienze sociali e a determinate scuole di giurisprudenza. La componente antirazionalista della scena attuale ha avuto – finora – una scarsa influenza nella filosofia, nelle scienze naturali, nell’economia, nell’ingegneria o nella matematica. Benché alcuni dei suoi eroi siano filosofi, essa ha avuto scarsa influenza nei dipartimenti di filosofia americana. Si potrebbe pensare che, poiché gli argomenti in gioco sono profondamente di natura filosofica, il dibattito sul curriculum, legato al desiderio di rovesciare la tradizione razionalista occidentale, debba imperversare nei dipartimenti di filosofia. Ma, per lo meno nelle principali università di ricerca americane, non è così. I filosofi accademici trascorrono molto tempo affannandosi attorno ai confini della tradizione razionalista occidentale. Sono ossessionati da domande del tipo: “Qual è l’analisi corretta della verità?”, “Come fanno le parole a riferirsi a oggetti del mondo?” e “Le entità inosservabili postulate dalle teorie scientifiche esistono davvero?”. Come il resto di noi, tendono a dar per scontato il fulcro della tradizione razionalista occidentale persino quando stanno dibattendo sulla verità, il riferimento o la filosofia della scienza. I filosofi che rigettano esplicitamente la tradizione razionalista occidentale, come Rorty o Derrida, hanno molta più influenza nei dipartimenti di letteratura di quanto non ne abbiano in quelli di filosofia.
Un secondo aspetto, per certi versi più sconcertante, è che è molto difficile trovare argomentazioni chiare, rigorose ed esplicite contro gli elementi fondamentali della tradizione razionalista occidentale. Di fatto, non è tanto sconcertante se si considera che parte di ciò che viene attaccato è l’intera idea di «argomentazioni chiare, rigorose ed esplicite».
[…]
A volte le “argomentazioni” si presentano più come slogan e gridi di battaglia. Ma l’aria generale di frivolezza vagamente letteraria che pervade la sinistra nietzscheanizzata non viene considerata un difetto. Molti di loro pensano che questo sia il modo in cui si suppone debba condursi la vita intellettuale.
John Searle, Occidente e multiculturalismo
La modestia
«Aprire un giornale, parlare con un amico, iscrivere un figlio a una scuola, far visita a un parente in ospedale o interrogarsi su cosa faremo di un pomeriggio di libertà sono alcune fra le infinite occasioni di imbattersi in questioni che solo la fretta, la modestia o… la mancanza di abitudine al pensare, appunto, ci impediscono di riconoscere come filosofiche. Metafisiche addirittura alcune, teologiche altre, psicologiche, esistenziali, estetiche, etiche. E infine, molto più di quanto non sembri, questioni di logica. Che in definitiva è l’etica del pensiero, senza la quale non c’è responsabilità nell’uso delle parole. Non c’è coscienza del loro peso, del loro contributo alla verità e alla falsità di quello che diciamo.
Proprio per questo, cominceremo “leggeramente”, un avverbio che volentieri il padre della nostra lingua, Dante, associa al verbo “ragionare”. Cominceremo dall’allegria che fa lieve la mente, perché “allegria” si apparenta con “alleggerire”. Se dobbiamo credere ad Agostino, di cui si è festeggiato nel 2005 il milleseicentocinquantesimo anniversario della nascita, “Nutre la mente solo ciò che la rallegra”.»
Roberta De Monticelli, “Il sonnambulismo e la veglia della mente”, in Nulla appare invano