Tricolori (parte prima)

Ieri ci sono state le celebrazioni dei centocinquant’anni dell’unità d’Italia, e c’è stato il fioccare di tricolori nelle immagini dei profili facebook. Sarò molto semplice, perché parlo di come mi sento, e questa non è un’analisi se non di un sentire.
Quando vedo il tricolore, nella mia mente – così, su due piedi – non si formano le immagini dei nostri paesaggi pazzeschi, della nostra arte, della nostra letteratura, né viene richiamata l’idea della nostra lingua, che amo. Quando vedo la bandiera, le immagini che si formano nella mia mente e le idee che vengono richiamate alla mia mente sono l’inno di Mameli, le Frecce Tricolori, la retorica su Romanità e Risorgimento, e, al massimo, una poesia di Pascoli imparata a memoria.
Cioè: il simbolo rimanda a se stesso ovvero rimanda ad altri simboli che rimandano ai simboli stessi o al simbolo stesso. Nella mia mente la significazione è circolare, la simbologia è vuota.

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Facciamo che ci siamo svegliati

Non è un film su Berlusconi, ma è arrivato il momento di seppellirli con una risata.
Giulio Manfredonia parlando di “Qualunquemente” (leggi l’articolo)

È arrivato il momento di, davvero, ridere di questo.
Antonio Albanese riferendosi a non tutti i politici italiani (guarda il video)

Il giorno dopo Berlusconi, non ci sarà un post–berlusconismo. Ci sarà solo un paese, ci si sveglierà e inizierà una nuova giornata raccontandosi un sogno che non è diventato realtà. E forse avremo anche la forza, ripensandoci, di riderci un po’ su…

Così scrive Filippo Rossi in un articolo che non trovo più in rete (discutendo, tra le altre cose, del mimetico film di Albanese e Manfredonia, sul quale forse c’è da riflettere più di quanto mi pare si stia riflettendo).
Ma ci sto: immaginiamo di svegliarci, come dice Filippo Rossi, facciamo che un giorno ci siamo svegliati. Facciamo che tutto questo è finito, che siamo nell’Italia delle lenzuola fresche di bucato appese ai fili dei terrazzi, l’Italia del vociare innocente, dei gerani sui balconi, degli spaghetti gettati nell’acqua limpida, dei tetti rossi di tegole, delle rondini, una seconda repubblica nata dal sacrificio di Falcone e Borsellino, dall’ottimismo progressista post-mani pulite, da “Avanzi”, dalle posse, dai film di Salvatores, dalla rai de “I ragazzi del muretto”; insomma: facciamo che improvvisamente ci siamo risvegliati in un universo parallelo, l’altro ramo della biforcazione, l’altra storia che poteva svilupparsi dal 1993 (perché non credo che Filippo Rossi intenda dire che ci risveglieremo nel 1993). Facciamo anche finta, dunque – affinché si possa pensare davvero che ci siamo destati da un sogno, come vuole Filippo Rossi –, che la Lega Nord sia un minuscolo, irrilevante partito di fanatici; che ci siano lavoro e diritti per tutti; che il G8 di Genova non sia andato come è andato.

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Dichiarazione politica

Essere berlusconiani non è avere in tasca la tessera del PDL. È la riduzione del linguaggio a superficie, e poi la sua stratificazione a oltranza; è ridere, nel linguaggio, dei corpi mercificati.

Essere antiberlusconiani non è andare al noBday, guardare Vieni via con me. Essere antiberlusconiani è rendere ragione e sentimento, è pretendere il riconoscimento della realtà logica e assiologica.

Fenomeni linguistici incontrollabili

Roberta De Monticelli, La questione moraleIl saggio di Roberta De Monticelli, La questione morale, ha il merito non irrilevante di offrire una ricognizione sui costumi di casa nostra – si parte da Guicciardini, si passa per Leopardi, si arriva a Corona e Ratzinger, a Bobbio e Zagrebelsky – portandone alla luce i presupposti filosofici, psicologici, culturali e politici, per porli all’attenzione di un lettore non necessariamente specializzato in filosofia e che però sia interessato, appunto, alla questione morale; l’operazione riesce, anche grazie al sostegno di una struttura semplice e chiara, in tre parti: “Male nostrum”, “Lo scetticismo etico” e “Tornare a respirare”, ovvero le radici del male, un falso rimedio che è parte del problema, e il rimedio reale.

Questo libro è soprattutto un gesto: da queste parti, infatti, non è per nulla scontato che la politica abbia qualcosa a che fare con la morale, e nemmeno che la morale possa essere oggetto di una riflessione in ambito morale. Si percepisce l’urgenza di estendere al di là delle pareti dell’accademia la discussione su temi che sì, sono tipicamente demonticelliani (assiologia fenomenologica, relativismo, nichilismo, decisionismo), ma che altresì rappresentano una strumentazione necessaria qualora si voglia realmente comprendere la nostra vita sociale e politica*; perché tanto si dice, di tanto si parla, ma ciò che sembra sempre sistematicamente fuori dal discorso sono le connessioni concettuali che il discorso implica, e il vocabolario necessario a dirimerle.

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Radio Genica 2 e ½. Reverenza e disprezzo

Pesaro, ultimo ponte sul Genica
Pesaro, ultimo ponte sul Genica

Si è parlato di due atteggiamenti diffusi, manifestazioni di un unico pensiero: se questa cosa, la “cultura”, (-A) non ha regole, non ha logica, non ha complessità (e non preclude l’autoproclamazione attraverso il sostantivo magico: io sono un artista! io sono uno scrittore! io sono un poeta! io sono un filosofo!), e (-B) è astratta, vale niente più del suono delle parole che enuncia e sta, come si dice, cagata, allora è una cosa bellissima e tutti la onoriamo. Ma se la “cultura” non solo (A) rivendica la sua complessità (escludendo dal novero degli artisti, degli scrittori, dei poeti, dei filosofi chi desidera liberamente annettervisi), ma pretende anche di (B) dire la sua nelle questioni reali, davvero importanti, quotidiane, pratiche, ecco che chi (ha deciso che) non ha i mezzi per accedere alla complessità, e se ne sente escluso, nega rilevanza pratica alla “cultura”, perché ciò significherebbe ammettere che in lui o in lei manca qualcosa di rilevante (in alternativa c’è chi vede nella “cultura” una devianza, e negli “intellettuali”, cioè nei pervertiti, i fautori di un oscuro complotto ordito per sostituire la “cultura” alla normalità).*

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Radio Genica 2. La “cultura”

Pesaro, ultimo ponte sul Genica
Pesaro, ultimo ponte sul Genica

Fino a qualche anno fa avevo un problema con l’arte. Per questioni scolastiche (ho fatto il liceo classico), ho spesso frequentato persone che, provenendo da ambienti dove il visivo e il concettualmente sottile li si respira fin dalla tenera età, avevano sviluppato una comprensione (che sembrava innata) proprio per ciò che più difficilmente può essere spiegato. Questa difficoltà della spiegazione, a me, che quella facoltà non la avevo mai acquisita, dava sui nervi; il mondo dell’arte mi appariva esoterico, fino al punto di indurmi a pensare che di fatto non ci fosse nulla da comprendere: per molto tempo ho creduto che chi “scegliesse” di dire bellissimo di fronte a un quadro – che avesse magari meno di centocinquant’anni di storia – lo facesse per sentirsi e dichiararsi parte di un’élite intellettuale.

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Bondism

Tarantino è espressione di una cultura elitaria, relativista e snobistica, che non tiene in alcun conto i sentimenti e i gusti del popolo e della tradizione, considerati rozzi e superati.

Così Sandro Bondi a Panorama; lo apprendo da Vibrisse.
Al di là del fatto che definire elitaria e snobistica la cultura di cui Tarantino è espressione mi sembra ridicolo, mi domando: quale significato sta prendendo, nell’era Ratzinger, la parola relativismo? Prima fu “fate come se Dio ci fosse“, il che sottintendeva che senza Dio non si danno valori; qualcuno aveva fatto notare il nichilismo implicito in questa posizione, ma certo, in questo caso è faccenda anche teologica: c’è di mezzo lo statuto di Dio, persona e/o generatore o creatore di realtà etcetera.
Con l’affermazione di Bondi, però, il nuovo significato del termine relativismo va chiarendosi. Supponendo infatti ciò che mi pare lecito supporre, e cioè che Bondi sia d’accordo sul fatto che un giudice o una giuria debbano premiare ciò che è bello e di valore, l’affermazione di Bondi si può leggere solo così: sono i gusti e la tradizione di un insieme di persone (il popolo) a decidere cosa sia bello e di valore.
Ora, il popolo non è Dio, dunque non c’è spazio qui per le sottigliezze ontoteologiche: il popolo è semplicemente un insieme di persone, e quindi credere, come fa Bondi, che sia il popolo a decidere cosa è bello e di valore equivale a credere che il valore sia riducibile a una costruzione sociale. Che i valori siano costruzioni sociali è concezione legittima, generalmente nota come relativismo. La logica conclusione, dunque, è che, per Bondi, se non sei un relativista, sei un relativista.

Trecento Gundam

La madre butta via i Gundam. Lui (ormai trentenne) incendia la casa
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Immaginiamo titoli alternativi per questo articolo del Corriere della Sera: La madre butta via i Gundam, trentenne incendia la casa. La madre butta via i Gundam, otaku incendia la casa. La madre butta via i Gundam, lui incendia la casa. La madre butta via i modellini, uomo incendia la casa. La madre butta via i modellini, collezionista incendia la casa. La madre butta via i Gundam, collezionista incendia la casa.

Suggeriva l’altra sera il mio amico Fabio: “Avrebbero scritto ormai trentenne, e tra parentesi poi, se si fosse trattato di modellini di Valentino Rossi?”.

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La solitudine dell’osservatore

Francisco Goya, Funerale della sardina, 1793
Francisco Goya, Funerale della sardina, 1793

 

L’ombra non processa se stessa
Speaker Dee Mo, Sfida il buio

 

Dove la legittimazione è accordata solo al tifo, qualsiasi immagine mentale di masse oceaniche che innalzano bandiere appare, all’occhio dell’osservatore, come la manifestazione di una dolorosa contraffazione, l’effetto di un veleno che prolunga la malattia; la bandiera non è più la sintesi di una narrazione articolata: è la corrispondenza esatta del semplicismo grafico con il semplicismo mentale. Per l’osservatore è la scoperta che la coesione sociale non ha valore.
Mai come oggi in Italia l’osservatore ha la possibilità di osservare chiaramente la meccanica a due piani che produce la sua solitudine: il primo piano è quello del tifo, del pro o contro Berlusconi, del pro o contro il Vaticano, del pro o contro l’Inter, del pro o contro gli idoli in generale: è il piano dell’idolatria. Il secondo piano, matrice del primo, è il piano delle idee, delle connessioni logiche, dei valori, dell’antropologia profonda.
La solitudine dell’osservatore, oggi, in Italia, nasce non dalla vittoria del partito di Berlusconi sul primo piano, bensì dal propagarsi, ben più maggioritario, sul secondo piano, di un’antropologia che è atrofizzazione delle facoltà preposte alla percezione del reale, al ragionamento, alla discussione, alla decodifica dell’informazione, un’antropologia che è addirittura rigetto rancoroso di queste stesse pratiche, un’antropologia che è volontà di pochezza.
Sono questa atrofizzazione e questo rigetto a generare il piano dell’idolatria, il regno del tifo, dell’individuo che garantisce la giustezza delle sue istanze mediante il suo essere quell’individuo e non il suo avversario: mentre metà del paese è impegnata a sentirsi coesa contro Berlusconi, l’osservatore è vittima della sua solitudine ogni qual volta un prete pedofilo è di per sé argomento contro un’analisi della poetica di Saramago svolta da un osservatore cattolico, ogni qual volta l’esistenza stessa di Berlusconi è di per sé argomento per condividere ogni cosa sia sostenuta da Roberto Saviano, ogni qual volta si trovi a percorrere mesto la teoria delle statue erette ai tribuni noti per attaccare la persona giusta.

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Concezioni altissime

Hiimelectric, Television, 2007

Su Il Fatto Quotiano è stato pubblicato uno scambio epistolare tra Nicola Lagioia e Antonio Ricci (la sequenza è: articolo di Lagioia, lettera di Ricci, lettera di Lagioia); lo scambio è riportato da Minima et moralia qui.
Nella lettera di Ricci si leggono tre argomenti.

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