Non si può far nulla, assolutamente nulla, per coloro il cui Io è morto. Ma non si sa mai, in un essere umano determinato, se l’Io è morto o solo inanimato. Se non è morto, l’amore può rianimarlo, come se lo pungesse, ma solo l’amore completamente puro, senza la minima traccia di condiscendenza, perché la minima sfumatura di disprezzo precipita verso la morte.
Quando l’Io è ferito dall’esterno, per prima cosa si rivolta con estrema amarezza, come un animale che si dibatte. Ma quando l’Io è quasi morto, desidera esser finito e si lascia venir meno. Se allora l’amore lo risveglia, è un acutissimo dolore che genera ira contro chi l’ha provocato. Da ciò, negli essere degradati, le reazioni (apparentemente inspiegabili) di vendetta contro chi ha fatto loro del bene.
Accade anche che in colui che fa del bene l’amore non sia puro. Allora l’Io risvegliato dall’amore, ricevendo subito, dal disprezzo, una nuova ferita, provoca l’odio più amaro, odio legittimo.
In chi, invece, l’Io è totalmente morto, non c’è nessun imbarazzo per l’amore di cui è fatto oggetto. Si lascia fare; come i cani e i gatti che ricevono nutrimento, calore, e carezze e, come quelli, è avido di riceverne il più possibile. Secondo i casi, si affeziona come un cane o si lascia fare, con una specie di indifferenza, come un gatto. Beve senza il minimo scrupolo tutta l’energia di chiunque si occupi di lui.
Disgraziatamente, ogni opera caritatevole rischia di avere come clienti una maggioranza di persone senza scrupoli o, soprattutto, esseri in cui l’Io è stato ucciso.
Simone Weil, L’ombra e la grazia