Il secondo dei tre pezzi su Pesaro che ho letto a Va bene uguale, il reading di domenica 30 settembre organizzato dal Quilombo nell’ambito di PerepePè.
Il Campus si trova a due chilometri da Piazzale Lazzarini, al di là del cavalcavia: vi si arriva procedendo sempre dritto sulla strada che il cavalcavia crea. Dunque è un luogo che con Piazzale Lazzarini è direttamente imparentato, e pare significativo che a metà strada di questi due chilometri che li separano, cioè esattamente a un chilometro dall’uno e dall’altro, si trovi il primo vero non-luogo pesarese, la vela di antimateria: l’Ipercoop.
Se saliamo sulla collina del Campus, quella con il cespuglio di alloro, e ci sediamo rivolti verso il centro, possiamo vedere l’Ipercoop nelle stesse proporzioni con le quali la si vede da Piazzale Lazzarini. Si vede anche la cima di Palazzo Cermatori, da qui, se si guarda oltre i robot schierati di via Goito, titani di pietra e metallo, guerrieri di una tecnologia da guerra fredda.
Io non ho frequentato una delle scuole che compongono il Campus, e su questa collina ci salgo d’estate e di pomeriggio, mentre questo luogo vive d’inverno e preferibilmente al mattino. Quando io vengo qui, questo luogo è svuotato. Sono un viaggiatore dello spazio che sbarca su un pianeta disabitato, e che, scrutando un complesso scolastico, cerca di ricostruire il modo di pensare, le aspettative e le speranze dell’antica civiltà che quel pianeta abitava.
Qual era la cultura di questo popolo? Cosa pensavano di se stessi, cosa pensavano che il mondo fosse, e quale dio pregavano? Se guardo l’edificio alla mia sinistra, vedo un razionalismo nudo, che non concede alle illusioni. Queste forme regolari, che sono totalmente al servizio della loro funzione, mi raccontano la storia di un popolo orgogliosamente libero dai miraggi della mente, dalle superstizioni, una civiltà laica che attribuiva grande importanza alla scienza, e che non voleva che le sue architetture offrissero sostegno a qualsivoglia credenza metafisica, non voleva traviare le sue nuove generazioni con delle icone. Il dio che questo popolo adorava, è chiaro, è il nulla.
Poi però c’è qualcosa che non torna, o torna, sì, ma in un quadro più ampio, e dunque mutando leggermente di significato. Perché io guardo questo edificio dalla collina sulla quale sono seduto, che è la sommità di un prato grande quanto l’edificio stesso, un prato che quel popolo ha evidentemente voluto affiancare al suo razionalissimo edificio, e senza porvi nulla, nessuna struttura adibita a chissà cosa, solo un prato, un filare di alberi, una collina, due cespugli.
Ora che ci faccio caso, anzi, vedo che la geometria dell’edificio è amorevole, protettiva: il portico offre ombre che ristorano e riparo dalla pioggia, gli angoli proteggono dal vento, le viuzze e le piazzole interne permettono l’incontro e lo scambio tra le persone. E mi rendo conto che se sono qui, sotto un cielo così aperto, è perché l’edificio me lo permette: si sviluppa in orizzontale, non vuole incombere.
La civiltà che abitava questo pianeta ha voluto che qui il cemento e l’erba, il cielo e la terra si toccassero. Inizio a vederlo bene, oggi che c’è il sole e l’azzurro perfetto della volta si sposa con l’arancione delle pareti di quella scuola che sembra una copertina dei Pink Floyd. Si alza una brezza che investe il filare, le foglie degli alberi si rovesciano mostrando il lato argenteo, e si agitano, rapidissime, si trasformano in uno stormo di farfalle metalliche. Ed è in quel momento che mi rendo conto di come questo luogo, se sai indugiare, lasci cadere la maschera e si mostri per ciò che è: un gigantesco dispositivo psichedelico, che rivela la potenza visionaria del puro reale. Questo popolo credeva nella sola materia perché nella sola materia era capace di vedere il sacro. Il nulla qui non è lo spirito che decade a fisica: è la fisica elevata a spirito. Dio è la molecola, Dio è il tutto, la natura, che produce gli esseri, che producono tecnica: tutto è semplicemente natura. Tutto qui mi parla di una religione biologica e chimica, mi parla di nuvole di sostanza, e noi della stessa sostanza delle nuvole, rarefazione e condensazione, atomi, serpentine e vapori. Questa civiltà riteneva che io e i fili d’erba qui accanto fossimo fratelli. Ecco perché questo luogo, comprendo, si chiama Campus: campus significa campo, un luogo dove crescono le piante. Per questo popolo, la formazione delle persone era parte del ciclo naturale: come la pianta viene curata e aiutata a crescere con l’intervento sapiente del botanico, allo stesso modo accade alle persone, affinché possano sbocciare, fiorire. Il Campus è insieme cattedrale naturalista, macchina per produrre visioni, probabilmente accumulatore orgonico, e chissà a cosa servono quei sei strani cilindri che, alle mie spalle, spuntano dalla terra, sulla sommità della collina, chissà a quale silenzioso e fondamentale processo alchemico erano deputati, o se magari sono lì perché la loro posizione e composizione, se osservata da una certa prospettiva, durante il solstizio d’estate, è in grado di spalancare una qualche porta della percezione.
Penso di aver capito. La civiltà che ha ideato e realizzato questo luogo non credeva di essere nel futuro: era ancora in tensione verso il futuro, lo attendeva con un’incrollabile fiducia. Perché qui il Nulla redentore, il Nulla nostro che è nei cieli, non è ancora una forma chiusa e realizzata: qui c’è un varco, che attende un avvento, la liberazione totale, la reintegrazione degli esseri nel tutto. Questo è un luogo che non solo dà valore al cielo, ma lo aspetta a braccia aperte. Basta guardare le Cinque Torri, che si levano verso l’alto come cinque spinotti in attesa di una presa aliena, che verrà, sicuramente verrà.
Dunque non è affatto vero che questo popolo aveva cancellato le sue credenze metafisiche eliminando le immagini, i simboli, i fronzoli dalle sue architetture: è proprio questa assenza a sostenere la religione liberante e gioiosa, progressiva e scientifica del nulla.
E tuttavia qualcosa deve essere andato storto lungo il percorso che conduceva alla piena realizzazione della civiltà solare. Il nulla è finalmente arrivato, sì, ma il nulla realizzato non è proprio come se l’aspettavano i sacerdoti che hanno voluto questo luogo. Trascinando le scarpe sul cemento ci siamo incarnati in un parcheggio, in un centro commerciale, all’ombra di un palazzo dalle geometrie spietate. E dire che i segni già erano presenti: subito al di fuori di questo complesso, c’è il sottopassso di Largo Volontari del Sangue, con le sue mitologie da periferia disperata; ma non serve nemmeno uscire: questo parcheggio qua davanti, alla fine del prato, mi racconta decenni di storie di sentimenti che si ripetono nella desolazione, qualcosa di simile a un vecchio disco di Vasco.
Rimango seduto qua sulla collina, e penso al nulla realizzato. La prima immagine che mi viene in mente proviene da lontano, da un pomeriggio di una vita fa, trascorso all’Obi.
(continua qui, nel terzo luogo del nulla; qui il primo luogo del nulla)