Io volevo Ringo Starr è un romanzo scritto da Daniele Pasquini e pubblicato da Intermezzi. Daniele Pasquini ha poco più di vent’anni (qui il suo blog). Il romanzo ha per protagonisti dei ventenni.
[Quando c’avevo vent’anni i discorsi per generazioni mi stavano sulle palle, soprattutto perché non mi sentivo assolutamente rappresentativo della mia generazione, anzi. Poi un giorno uno più vecchio e intelligente di me mi disse che, passato qualche anno, i discorsi sulle generazioni li avrei capiti e ne avrei fatti io stesso. Qualche anno è passato e non so se capisco i discorsi sulle generazioni, però mi viene da farne.]
[In questo romanzo è del tutto normale che dei rockers si muovano tra blog e MySpace. Quando avevo vent’anni i rockers odiavano la tecnologia – tranne quella degli effetti della chitarra – e ciò faceva pendant con la loro ostinazione a suonare un tipo di musica che si produce percuotendo oggetti d’altri tempi. All’epoca c’era un rifiuto verso le nuove tecnologie, derivante da un’equazione elettronico = freddo, e questo valeva pressoché per tutto, con anche dei corollari interessanti per cui elettronico = fighetto, per esempio in The Committments i Depeche Mode sono “i fighetti col sintetizzatore” (pare che ne siano convinti anche gli odierni Depeche Mode) e il cellulare era un oggetto deprecabile. Il protagonista di Daniele Pasquini, invece, vive tranquillamente nel mondo del 2009 e suona un tipo di musica antica. Di più: si muove in un intero universo in cui decine di ragazzi suonano un tipo di musica antica.
Non solo: tutte le differenze che un tempo esistevano nelle varie correnti culturali legate ai vari generi sembrano scomparse. Sì, ci sono dei nuovi nemici, gli emo, ma un gruppo non ha alcun problema a suonare i Sex Pistols dopo i Deep Purple o i Led Zeppelin dopo i Clash. Addirittura il protagonista ascolta Animals dei Pink Floyd e poi un disco dei New Order. Il punto non è che gli piacciano cose diversissime, capitava e capita; il punto è che l’accostamento sembra naturale: è come se due prodotti distanti nel tempo e nel genere musicale divenissero vicini nel tempo e nel genere musicale una volta che fosse passato più tempo di quello che è passato tra la realizzazione dell’uno e dell’altro. Insomma, è come se Daniele Pasquini trattasse il rock come una musica classica.]
Mi fa anche un certo che leggere che Valentina, amata dal protagonista Vanni, definisca “troia” una ragazza che “chiede più volte al buon Tommy se lui la accompagna fino a casa, ma anche un po’ più su”. Valentina, in tutta la storia, è rappresentata come un mostro di saggezza e intelligenza, maturità e consapevolezza, a tutto tondo, senza lati oscuri, se si eccettua questo commento.
Dell’amico Mejer, batterista dalla criniera a dreadlock come stilema di sinistra, Vanni parla così:
«Nietzsche in Aurora diceva che il serpente che non può cambiare pelle muore. Lo stesso accade agli spiriti ai quali s’impedisce di cambiare opinione: cessano di essere spiriti. E in questo senso Mejer appariva, più che come un vero e proprio spirito, come una macchietta».
Questo è un discorso che quelli-della-mia-generazione hanno cominciato a fare più tardi, anagraficamente, non troppo più tardi, ma all’incirca quando si sono ritrovati ad avere a che fare con il qualunquismo di sinistra e l’adesione impersonale a stili di vita e parole d’ordine di chi, dopo un primo moto di ribellismo, non si era evoluto come gli altri. Tuttavia ritengo che il ribellismo, a vent’anni, sia dovuto, fisiologicamente corretto e necessario. Non importa che sia ancora privo di studio o riflessione, perché è una risposta naturale di un sistema mente-corpo ancora sano allo scontro con il potere, una risposta biologica mi verrebbe da dire, non immediatamente cognitiva.
“Però Mejer non era come Ringo, era troppo esuberante. La sua lotta alla banalità della vita era un continuo mettere in discussione il buon senso. So che questi son ragionamenti da quarantenne, ma le cose erano così. Non era facile convivere con uno del genere”.
Che Io volevo Ringo Starr si ponga in contrapposizione agli Interessi in comune di Vanni Santoni è evidente: il protagonista di Ringo Starr si chiama Vanni, e nel romanzo c’è un passaggio in cui una frase di Santoni è letteralmente invertita. Si dice: la vita è sottovalutata.
Se prendiamo questa inversione del giudizio sulla vita come un suggerimento, riveliamo il suo dispiegarsi in una contrapposizione più precisa. Negli Interessi in comune si metteva in scena un’antropologia (psiconauta) che affermava se stessa come nuova normalità. In Ringo Starr, Pasquini sembra rivendicare un’antropologia che, rispetto a quella degli Interessi in comune, appare come reazione, e della quale è emblema il ricorso del protagonista a droghe legali come alcol, tabacco e Aulin.
Scrive Gianluca De Salve che il romanzo
“non si ferma a un piano di puro sogno utopistico ma che è in grado di trasmettere quegli attimi, anche limitati nel tempo, in grado di sospendere la felicità a un livello superiore, a un’altezza tale a cui le critiche o le paure non possono arrivare per rovinarla”.
E questo è assolutamente vero. Solo che io me ne sono accorto solo dopo aver letto le parole di De Salve, me ne sono accorto solo dopo che queste parole mi hanno indicato dove guardare.
In me il romanzo ha fatto nascere una sensazione all’apparenza del tutto opposta, che però ho il sentore sia perfettamente compatibile con quanto scrive De Salve: la mia sensazione è che Vanni, il protagonista, sia vittima di una malinconia totale, e che questa malinconia sia più profonda e più disperata di quella che aggrediva (o che si pensa e/o si pensava che aggredisse) i ventenni di dieci anni fa, più adulta e anche più controllata, anche verbalmente controllata, senza indigestioni di parole, senza precipizi bohémien, senza accessi di rabbia, di rivolta, di blasfemia, di trasgressione fine a se stessa.
Dice Vanni:
“Voglio vedere solo quello che mi è chiaro, o che credo mi possa esser chiaro. Oppure fatemi ripartire in voli pindarici, ma solo quando lo decido io. Ho deciso di concentrarmi su Rock, Schopenhauer e Valentina. Per ora lasciatemi qui. Sono abbastanza monotematico. Ma già faccio casino con poche carte, se me le mischiate, e mi mettete al corrente dei miei troppi svarioni finisco per esplodere. La vita è talmente vasta che complicarla intellettualmente mi ucciderebbe”.
C’è in effetti, in tutto il romanzo, una specie di divaricazione tra un abisso di indefinitezza, irrazionalità e insensatezza, e il caro vecchio buon senso. Talvolta, quando il protagonista è conciliante nei confronti dell’esistenza dell’abisso di indefinitezza, il buon senso ricorda il pensiero orientale che affascinava i beat; più spesso, quando il protagonista dall’abisso è spaventato, il buon senso assume tratti scettico-fideisti, e pare rigettare in partenza tutto ciò che la pubblica opinione ama definire “eccessivo”.
Ora, ho la sensazione che siano proprio il controllo e la maturità di cui si diceva prima, assieme a questo inquietante, ambiguo buon senso, ciò che alimenta la malinconia di Vanni. Ho la sensazione che siano essi a occludere vie di naturale esplosione a un’energia che è compressa da ogni parte: da una filosofia (Schopenhauer è il nume) d’esistenzialismo moderato, sospeso nell’innocuo centro fra le opposte valvole liberatorie di una sfrenata mistica antidogmatica e di un vitalismo nietzschano; da una musica che ormai è status quo, ribellismo surgelato, storicizzato, pronto per l’uso, una musica che viene sposata totalmente ma – (manco) a farlo apposta – ammortizzandola nei suoni (perché è così che si immaginano le esibizioni della band di Vanni) e narcotizzandola nella sua declinazione politica, dove potrebbero dipingersi gli scenari utopici del progressive o esplodere gli schianti nichilisti del punk.
Ho insomma la sensazione che Ringo Starr abbia un altro livello di lettura, che Ringo Starr finisca per dire qualcosa di più di ciò che dice apparentemente. O meglio: credo che Ringo Starr, oltre a essere una storia che evidentemente l’autore voleva raccontare, sia anche quello che sembra dichiarare di essere: una presa di posizione a favore del buon senso. Che però non si nasconde e non nasconde, qui sta il suo valore più profondo, la fatica esistenziale e l’ambiguità ideologica che una scelta a favore del buon senso comporta.