Questa recensione è apparsa sull’Indice di ottobre.
Michele Botta ha ventisei anni, è compulsivo, nevrotico, particolarmente abile a trovare pretesti per andare in collera e a ingenerare limiti nella pazienza apparentemente illimitata della sua fidanzata; coltiva un’evidente propensione all’alcolismo, è ossessionato dai manifesti giganti del naufragando Veltroni, assuefatto alla pornografia on-line, torturato da un reflusso gastroesofageo, perseguitato da una pretendente fasciofuturista. Soprattutto Michele è stato assunto da una società di produzione televisiva, e mentre lavora al format di Qua la zampa!, un delirante reality sui cani, l’occasione della svolta gli si presenta nella forma di una fiction milionaria su un patriarca del porno. La futura classe dirigente racconta il tentativo di Michele di tenere insieme tutti i pezzi di sé al cospetto della fortunata circostanza.
Il respiro ampio e la narrazione in prima persona impongono a Peppe Fiore una voce differente da quella dei racconti: il romanzo è loquace e, complice la soggettiva, l’autore si mette più in gioco; la formula è efficace, e i dialoghi perfetti, gli stacchi cinematografici, le risate, numerose e potenti, i temi e i problemi affrontati senza remore non esauriscono i pregi del romanzo: l’eleganza consueta della prosa di Fiore intesse ogni singola frase e procura al lettore un piacere raro; e il sarcasmo disperato che innerva il romanzo va a porsi al polo opposto – e qui la prima persona trionfa – rispetto a una presa di distanza ironica. Se dei personaggi di Cagnanza e padronanza (Gaffi, 2008) su queste pagine si era detto che non possedevano “nemmeno i vocaboli, le immagini, gli oggetti per dire la disperazione”, Michele i vocaboli, le immagini e gli oggetti li possiede, ma la sua disperazione è non trovare più la via alla credibilità del male. Da un lato, infatti, la mediatizzazione dell’homo italicus rende impossibile un rapporto diretto con le proprie emozioni: Michele è inesorabilmente spettatore di se stesso, come se si vedesse sempre da dietro una telecamera. Dall’altro, la comicità mediatica all’italiana – che è in fondo il riflesso di un carattere nazionale: per Michele se apri il Gabibbo dentro c’è Berlusconi, ma se apri Berlusconi dentro c’è un altro Gabibbo – ha contaminato tutto. Il risultato di questa combinazione è la tragedia paradossale di Michele Botta: non riuscire a salvaguardare nemmeno una dimensione personale dove resti in vigore un puro sentimento del tragico, una percezione di sè non inquinata dalla caricatura. Intanto, là fuori, il mondo sembra edificato dall’“ultimo uomo” dello Zarathustra di Nietzsche: quello che saltella e rende tutto piccino, che ha inventato la felicità e ammicca. Non è solo la vita di Michele: è l’Italia intera ad assumere i tratti mai così espliciti della commedia all’italiana. Qui uno scassinatore non può che essere lo scassinatore di un film di Lino Banfi. Solo Roma conserva a tratti connotati seri e tragici, un mostro di cemento soffocato ora dal sole ora dalla nebbia, un nulla spietato e desolante, l’altra faccia, opposta e veritiera, del nulla della demenza collettiva. Eppure qualcosa si muove. Come se reagisse all’iperfagia delle comunicazioni e delle relazioni, il corpo di Michele manifesta il proprio limite e tenta di ricreare un ordine autonomamente. Michele Botta, che dice – non senza un tono di fierezza – di essere arrivato a Qua la zampa! passando per Wittgenstein, è il nodo al centro di una ragnatela impossibile: vive all’incrocio tra la sua relazione con Francesca e quella con i suoi genitori, patologiche per motivi diversi; lavora per una piccola casa di produzione dai trascorsi seri e impegnati che oggi scende a patti con il mercato televisivo più disastroso, senza che si capisca cosa si debba fare, cosa non si debba fare, cosa sia lecito fare senza perdersi e rispetto a quale ordine morale; è ossessionato da un PD ciclopico che mischia tutto in un grande nulla e intanto bazzica una spasimante fasciofuturista, con l’esito di essere bastonato da picchiatori rasati. Vive, soprattutto, nella sterminata terra di nessuno, tipicamente italiana, tra l’adolescenza e la vita adulta. Il risultato è il reflusso gastroesofageo, immagine e antidoto di un’integrazione impossibile tra Wittgenstein e Qua la zampa!, tra un ventiseienne e l’Italia contemporanea. La depurazione è dolorosa e sfiancante, però fa il suo dovere. Il rigetto di ciò che è impossibile accogliere – e che non lo si potesse accogliere lo avevano già capito l’amico Ennio scappato in Giappone e Francesca in partenza per il Libano – libera finalmente lo spazio per un’esperienza emotiva immediata, una capacità di riappropriarsi del presente. Qualcosa che assomiglia a una saggezza comincia a comparire nei rapporti familiari. Intanto Michele si accorge che il Bagaglino non lo fa più ridere mentre scorrono le immagini della Roma di Alemanno, dell’otto percento della Lega, dei pestaggi nelle strade e di tutta la tragedia che si nascondeva dentro quell’ultimo Gabibbo.