Fino a qualche anno fa avevo un problema con l’arte. Per questioni scolastiche (ho fatto il liceo classico), ho spesso frequentato persone che, provenendo da ambienti dove il visivo e il concettualmente sottile li si respira fin dalla tenera età, avevano sviluppato una comprensione (che sembrava innata) proprio per ciò che più difficilmente può essere spiegato. Questa difficoltà della spiegazione, a me, che quella facoltà non la avevo mai acquisita, dava sui nervi; il mondo dell’arte mi appariva esoterico, fino al punto di indurmi a pensare che di fatto non ci fosse nulla da comprendere: per molto tempo ho creduto che chi “scegliesse” di dire bellissimo di fronte a un quadro – che avesse magari meno di centocinquant’anni di storia – lo facesse per sentirsi e dichiararsi parte di un’élite intellettuale.
Con il tempo ho cambiato idea: accettare che in quel quadro ci sia effettivamente qualcosa, accettare che sia qualcosa di importante che parla a una parte importante di me, e che la mia rabbia provenisse proprio dalla consapevolezza confusa che lì ci fosse qualcosa di importante cui mi mancavano gli strumenti per accedere, tutto ciò ha richiesto un po’ di umiltà, mi ha anche messo in qualche situazione imbarazzante, e non ha certo fatto di me un critico d’arte, perché non ho il tempo, e quindi non posso dotarmi degli strumenti per capire d’arte, e però, paradossalmente, tutto ciò oggi mi permette forse di intravvedere, in quel quadro, qualcosa di più di un simbolo di status senza contenuto reale che non sia il suo essere simbolo di status.
Ho l’impressione che oggi il sentimento di gran parte degli italiani, politici compresi, di fronte alla “cultura”, sia lo stesso che avevo io di fronte all’arte. In Radio Genica 1 ho parlato dell’appiattimento della vita sulle categorie della legalità e dell’informazione, ma ho l’impressione che, almeno in una certa misura, ci si butti su legalità e informazione anche perché si è in fuga dall’idea dell’importanza di una formazione che forse si sente ormai perduta, o forse mai ricevuta e fuori dalla propria portata, ovvero che, almeno in una certa misura, ci si butti su ciò che è comprensibile anche perché si è in fuga da ciò che è incomprensibile, esattamente come ci si butta sulla petizione online perché si è in fuga dalla sensazione di impotenza e come ci si butta sulla riproposizione della notizia perché si è in fuga dalla riflessione, e che questa fuga abbia origine nella paura di non essere all’altezza di qualcosa che – si avverte profondamente (sia nel senso di “fortemente” sia nel senso di “in profondità”) – dovrebbe appartenerci in quanto esseri umani: quel sapere che, per l’appunto, definiamo “umanistico”.
Alla “cultura” si chiede di accettare la propria inutilità; viene celebrata a parole, ma appena si azzarda a fiatare viene umiliata dal richiamo alla concretezza della realtà, sulla quale si suppone evidentemente che la “cultura” non abbia nulla da dire. Titolo nobiliare e suprema inettitudine, la “cultura” è in entrambi i casi distante, ed è riverita o aggredita a seconda del suo rinunciare o no a pronunciarsi sulla realtà. Sembra non dare fastidio solo quando, galimbertianamente, conferma la sua inutilità elargendo filosofumi e sottintende, con il gioco di parole, di non aver nulla da dire se non il nichilismo che dà ragione a ognuno, che a ognuno concede il diritto di manipolare la propria percezione di sé e del mondo attraverso la manipolazione del sostantivo: il sostantivo si riprende il primato a spese della proposizione, la pancia e la magia si autofondano come verità a discapito del valore di verità – e ciò contribuisce, peraltro, all’espansione del secondo universo.