Ho sentito dire – in giro, al bar, in rete – che in parlamento, il giorno della fiducia, “Di Pietro le ha cantate a Berlusconi”, che “Di Pietro ha detto le cose come stavano”. “Di Pietro distrugge Berlusconi” recita il titolo di un ormai noto video (link tolto, causa scomparsa del video, NdJ), ovvero: Di Pietro chiama Berlusconi “stupratore della democrazia”, “spregiudicato illusionista, anzi: pregiudicato illusionista”.
Un paio di giorni fa Vendola (cioè lo staff di Vendola) ha pubblicato sul suo profilo Facebook queste parole: “Il lavoro fondamentale da fare è lo scavo nel suolo delle parole. Il centro sinistra oggi è un palcoscenico che non ha parole”. Molti commentatori hanno contestato questa dichiarazione.
La situazione è singolare. Di Pietro ha fornito informazioni sui problematici rapporti che Berlusconi ha con la democrazia e con la legge, informazioni che possiamo considerare, con una certa sicurezza, già detenute da quasi tutti i destinatari: Berlusconi, Parlamento, berlusconiani e antiberlusconiani. Naturalmente lo ha fatto con un surplus comunicativo: il vigore, e il giudizio, giudizio che naturalmente è condiviso solo da chi la pensa e la sente come Di Pietro. Ecco: che Di Pietro abbia detto con vigore ciò che tutti o quasi sanno e in tanti dicono, e che abbia giudicato Berlusconi come in tanti lo giudicano, questo è piaciuto, e non si contesta affatto la natura verbale del suo gesto.
Alla frase di Vendola su Facebook sono seguiti invece parecchi commenti, spesso piuttosto aggressivi, che, in sostanza, invitavano a occuparsi di fatti e non di parole. Ecco: che Vendola abbia posto come problema il rapporto tra il successo politico e il modo di raccontare la realtà, e dunque la necessità di reperire parole convincenti – e che lo abbia fatto di fronte ai cittadini, in questo modo non riducendoli a soli target, ma coinvolgendoli come strateghi, o quanto meno mostrando loro i meccanismi della narrazione politica – questo non è piaciuto (salvo ai tifosi che dicono “Grande Nichi!” sempre e comunque).
La narrazione di Di Pietro, nella misura in cui riduce il mondo a legalità e informazione, nasconde la propria natura di narrazione, e riducendo l’attività politica quasi solo alla battaglia per la legalità, all’informazione, e in special modo all’informazione sulla legalità – tanto che, quando non c’è niente di nuovo, la singola informazione viene semplicemente reiterata –, fa passare per un fatto il proferire parole che riportano informazioni già conosciute e già condivise. La narrazione di Vendola non nasconde se stessa, anzi il problema delle narrazioni è qui una parte importante della narrazione stessa, alle parole si affianca qui un discorso sulle parole: sulle parole proprie e sulle parole dell’avversario. Stando a ciò che leggo e sento dire in giro, mi pare che vincente presso il suo stesso popolo sia la narrazione di Di Pietro, che però nasce già perdente perché parla solo al suo popolo e non si pone altri obiettivi; e che perdente presso il suo stesso popolo sia la narrazione di Vendola, dal canto suo potenzialmente vincente perché orientata a una più ampia conquista di consenso: il mantra di Di Pietro è considerato un fare, mentre la ricerca, proposta da Vendola, di una strategia per contrastare un potere basato sulla comunicazione è considerata non tanto un orpello inutile quanto, a giudicare dall’aggressività dispiegata in molte risposte, un problema. Chissà perché.