Per quanto il dato fosse già di pubblico dominio grazie all’abbondanza di letteratura sull’argomento, ammetto che senza nemmeno rendermene conto mi aspettavo l’unico oceano indiviso che fin da bambini siamo abituati a immaginare. Invece una volta entrati nell’atmosfera potemmo vedere i fondali più prossimi alla superficie, i continenti di quel mondo, solo più velati d’azzurro dei nostri: aree verdi scuro e marroni, o grigie, ricoperte dalla sottile lastra dell’acqua. Scendemmo ancora, e allora quello che fino a un istante prima era stato il contorno del pianeta divenne il nostro orizzonte.
Ero curioso. Ravioli no, e anche per questo non era contento. Come me non c’era mai stato, ma aveva sempre confessato che al solo pensarci gli venivano i brividi. Il trovarselo concretamente sotto di noi, così pacifico e rasserenante, non sembrava aver dissipato le sue sgradevoli suggestioni. Guardava fisso nell’oblò sotto i nostri piedi mentre dai riccioli biondi due rivoli di sudore gli colavano sul volto pallido e contratto. Tuttavia non erano tempi buoni, del resto oggi non è che siano migliorati, e ci si adattava a fare un po’ tutto. Raramente fare tutto è piacevole e Ravioli non era scemo né paranoico. Eravamo, soprattutto, solo l’ennesima missione, la prima per me e per lui, ma già occorrenza del fenomeno in crescita costante che la gente chiama la Nuova Sensibilità. Ricchi professionisti riempivano i loro giardini imperiali di vestigia, facevano ricerche di scientificità improbabile sull’origine dei loro cognomi, malpagavano volontari per il recupero dei reperti. Quello che si raccontava degli squali e delle loro facoltà ipnotiche non era rassicurante. Persino le loro dimensioni, che i più dicevano ridotte, meno che umane, ne facevano delle creature anomale. Nessuno ne aveva mai catturato né fotografato uno e chi ne parlava sembrava talmente sballato che i più suggerivano di non dar credito alla storia. Talmente sballato, pensai guardando Ravioli che fissava il nulla mentre guardava l’oblò, da provare con il suo stesso comportamento che qualcosa doveva aver necessariamente veduto. Ma questo non glielo dissi a Ravioli. Né scacciai il pensiero, perché nello spazio i compagni ti servono freddi e le leggende ti fanno sopravvivere.
Secondo le coordinate eravamo prossimi all’obiettivo. Individuammo la penisola al di sotto dell’acqua, i picchi più alti non dovevano essere a più di una decina di metri dalla superficie. Percorremmo la lunga riviera dal basso in alto. Potevo vedere le sabbie marroni che emergevano dal mare per diventare regolari canali grigi ed edifici. L’alba era quasi piena, tra poco avremmo visto bene ogni cosa sotto di noi. Individuammo il punto dove avremmo trovato il reperto: a circa tre quadri da dove eravamo.
La navetta rallentò e si fermò nell’aria. Mi assicurai il cavo e la bombola, srotolai la scala di corda, afferrai il magnete e cominciai a scendere. Sotto di me e dopo attorno a me la flora marina emetteva una luminescenza chiara, finemente tendente all’azzurro, che assieme al sole ormai del tutto visibile concedeva all’acqua una trasparenza e un nitore perfetti, da giorno pieno. Il territorio attorno al reperto era una giungla di alghe e del reperto si scorgeva solo una cunetta, una piccola cupola nera immersa in una foresta, abbastanza per non dover chiedere a Ravioli ulteriori precisazioni. Cominciai a muovermi tra la folta vegetazione.
Quando il magnete iniziò a tirarmi verso il reperto, sentii la mia mano destra muoversi agitata verso la pistola, tempo cinque secondi, l’accelerazione, e piombai sul pallone metallico, arte di un altro mondo; il suono sordo del magnete che si incollava alla sua superficie mi arrivò mediato dall’acqua e mi sembrò che rimbalzasse ovunque. Incassato il colpo, istintivamente mi guardai attorno. In un mondo dove tutto ondeggia è anche difficile scorgere qualcosa, ma tutto sommato mi sembrò che tutto ondeggiasse come ondeggiava prima.
-Carica- dissi a Ravioli nel trasmettitore.
Non ottenni risposta. Girai un’altra occhiata furtiva attorno. Tutto ondeggiava, silenzioso.
-Ehi- fece l’auricolare gracchiando.
-Dov’eri?
-Guardavo il sole dall’oblò grande. Tiro su?
-Vai.
Sentii la catena tendersi e mi staccai dal magnete e dal reperto con una spinta delle gambe.
-Ravioli.
-Sì?
-Quanto tempo abbiamo?
-Tre linee, direi.
-Rimango giù un altro po’.
Ravioli non rispose. La catena cominciò a estrarre la sfera dalla sua incrostazione secolare. La vidi salire verso la superficie, farsi di nuovo tonda, giovane e bella sopra di me, resa leggera dalla forza trainante; mi allontanai di un poco dalla sua perpendicolare. Risalii anche io verso la superficie.
Bucai il pelo dell’acqua. Sulla linea dell’orizzonte si alzava un sole ancora debole, ma di lì a un segmento l’atmosfera si sarebbe fatta invivibile. Eppure qualcosa mi tratteneva lì, il fascino oscuro per radici ormai estranee, fossili.
Cominciai a muovermi con ampie bracciate, prima guardando quel cielo azzurro che i miei avi avevano guardato per migliaia di anni, poi mi voltai a guardare sotto e abbandonai quella che era chiaramente una zona costiera per una più densa concentrazione delle vestigia di quell’antica civiltà. Vedevo sotto di me le strade, le seguivo. Non so quando esattamente mi accorsi di qualcosa che stava facendo il mio stesso percorso. Me ne accorsi all’improvviso e, nello stesso istante, non so come, ebbi anche la certezza che lo stesse facendo da molto. Lo focalizzai e vidi il cadavere di un qualche essere impensato. Sembrava scomposto, come se fosse formato da parti mobili, lacerate. Era ricoperto di quello che assomigliava al brandello di un vestito, giallo. Stava con la pancia rivolta in su, rivolta verso di me. All’improvviso gelai: quella cosa era viva. Quella mobilità innaturale delle parti era l’insieme delle sue articolazioni, quell’abbandonarsi alla corrente era un nuotare. Aveva la testa appuntita, con le branchie che vistosamente respiravano ai lati in movimenti che a prima vista mi erano sembrati causati dalla corrente, le pinne e la coda però erano diverse da come ce le si aspetterebbe: aveva braccia, incollate per i polsi al busto, e da lì le mani, o qualcosa di molto simile a mani, si levavano nell’acqua remando; e aveva gambe, che però si univano all’altezza dei talloni dando ai piedi la forma di una coda, ma orizzontale come quella di un cetaceo. La bocca era a mezzaluna tendente in basso, gli occhi subito sopra la bocca, nel volto privo di naso. Aveva uno sguardo vuoto, come quello di un vero morto, ed ebbi la certezza che fosse una femmina, giovane e in qualche modo, secondo un qualche tipo di suo standard, bellissima. Mentre pensavo queste cose e registravo questi dettagli mi accorsi che avevo continuato a nuotare e lei con me. Non so quanto continuammo a nuotare assieme, non riuscivo a staccarmi, essere sopra di lei mi infondeva una sconosciuta sensazione di dolcezza e piacevole tensione. Solo ancora dopo mi accorsi che ne stavo imitando i movimenti. Che mi stavo lasciando andare. E che Ravioli mi stava chiamando.
-Ei. Eeei.
-Sì. Sì, ci sono.
-Ti vuoi muovere? Tra un po’ qui l’aria sarà fuoco.
-Perdonami- dissi, -arrivo.
Mi fermai. La creatura si fermò. Il suo sguardo non cambiava, il volto fisso sul ghigno involontario con gli angoli all’ingiù. Cominciai a nuotare verso la navetta. Cominciò a seguirmi, ma sempre a distanza.
-Tira- dissi a Ravioli.
Il cavo mi trascinò via.
Fuori dall’atmosfera Ravioli non sembrava ancora tranquillo.
-Stare in nave con questo affare mi dà i brividi- disse guardando il reperto -hai visto qualcosa là sotto?
-Credo di sì- dissi.
-Non voglio sapere nulla,- disse Ravioli scuotendo la mano, -già se penso che veniamo da qui mi faccio schifo da solo.
-Non devi sapere nulla- gli dissi io, e lo accarezzai sul capo, sorridendo. Mi stavo accorgendo in quel momento che era più giovane di me.
Dite che sembro normale, anzi in perfetta salute mentale, e questo vi lascia perplessi. Vi dico che ciò rassicura me non su di me, che non ho dubbi su come sto, e nemmeno mia moglie mi pare, ma sugli altri, quelli che voi chiamate casi standard, insomma quelli che per voi hanno problemi. Mi rassicura perché so che sanno, siete voi che non mi rassicurate e non sapete. Sostanzialmente credo che mi sia stato sufficiente non sentirmi obbligato a pensare che si tratti di squali. Credo che abbiate ora elementi sufficienti per trarre le vostre conclusioni in merito alla terapia. Io ve l’ho detto, non ci credo, state sbagliando tutto: fate domande, volete sapere, ma il punto è non farsele più: a quello serve l’angelo. Se gli altri sono malinconici, a quello serve l’angelo. Se ora sto bene e rido quando c’è il sole e pure se piove, a quello serve l’angelo. Quello che fate voi ora non serve a nulla. Dovete essere felici. Posso andare?