Principi di devozione I

Pubblico in vista il Principio di devozione del Narrator Ingegnere Pierpaolo Figanera che gentilmente sacrifica ai lettori di questo blog – e altri devoti spinge alla condivisione delle storie – il racconto della sua esperienza allorché sorprese se stesso in cammino sulla via della devozione modiana.

Era la mia prima estate indiana. Compivo quell’anno diciott’anni e mio fratello Paolo filosofeggiava alla finestra rullandosi una altra sigaretta. Dalla altra stanza, fuori dalla camera, non veniva alcun rumore ma c’era lo stesso aria di festa in casa. Qualche giorno prima, il vecchio Belarus a muro era stato venduto per due milioni e mezzo ed, ora, girava carta moneta come non se ne vedeva da tempo. Paolo portava, in quel tempo, i capelli ricci, orrendamente tinti di biondo, con un enorme “cocco” in avanti ed un codino piccolissimo strizzato dietro da un elastico giallo. Era la copia perfetta di Martin Gore ossigenato e, non a caso, entrambi si dilettavano – con ottimi risultati – alle tastiere. Quel pomeriggio, parlandoci di Parmenide e del suo primo esame all’università, era venuto a trovarci anche Il Sork che aveva rimediato il tabacco originale della Camel e non quello – putrescente – che già veniva messo nelle nuove bionde con la scritta blu di cui tutti si lamentavano. Rifiutare non si poteva.

Benché non fossi un assiduo, fumai anche io. Non era certo la prima volta che prendevo l’erba ma l’idea, quel giorno, mi piaceva particolarmente: drogarmi di pomeriggio, d’estate, con persone più grandi di me. Mi sentivo naturalmente trasgressivo e, come sempre, migliore di tutti i miei coetanei. Il Sork, musicista raffinato, libero pensatore e micro spacciatore, ci diceva che solo il filosofo poteva questo e quello e mentre lo ascoltavo esterrefatto per la qualità del ragionamento, la semplicità dell’esposizione e la profondità del pensiero, mi convincevo che anche io,un giorno, avrei fatto filosofia e sarei diventato un filosofo fumatore. In quel periodo un altro mio fratello, che abitava a pochi metri da casa di Paolo, pasteggiava con Hascisc e vino rosso imitando Baudelaire e insegnandomi che tutto quello che può essere fumato può anche essere mangiato. Lui, però, non ha fatto filosofia ed è finito dritto dritto dallo psicologo.
Non so perché se penso ai Depeche mode penso sempre a quella estate indiana. L’assoluta libertà dei miei diciasett’anni, i pomeriggi a casa di Paolo, la Fiesta rossa con la quale, fatti come topi neri, andavamo a noleggiare i film porno a Cattolica. Diciassette anni è una età stupenda: è come se la vita ti regalasse un intero anno sabbatico di sperimentazione, di figa, di alcol, droga, viaggi, musica, gente. Niente esami, niente scelte per la vita, niente orari, niente responsabilità, termini, scadenze, prescrizioni. Tre mesi di vacanza, finalmente grandi, fintamente grandi, senza controlli dei pà e delle mà:
“Esco. torno tardi”
“Dove vai?”
“In giro”
E, poi, l’alcol, le prime scopate sulla spiaggia, il piacere di annoiarsi assieme a persone altrettanto intelligenti ed annoiate.
Paolo mi iniziò al culto dei Depeche Mode gruppo che ho finito per amare, forse, molto più di quanto lui, ora, non lo ami. Fu una istruzione classica ed intelligente: si partì dal facile e si arrivò ai remix più strani, alle prove in studio, a pezzi mai usciti, ad altri mai autorizzati. Imparai la importanza del CD singolo nella storia di questo gruppo. Se cercate bene, le cose migliori sono tutte nei B side. Ma in quel periodo non c’era solo Martin Gore che già svettava come onnipotente Signore dell’electro pop anni ottanta.
Una volta, per esempio, io e Paolo unimmo i nostri risparmi e comperammo ventiduemilalire di gelato da Bacillieri, noleggiamo The Wall e ci vedemmo l’unica cosa per la quale, un giorno, qualcuno si ricorderà di Bob Geldof. Nocciola, Bacio e Whyskey on the Rocks: il piacere di scoprirsi sbronzi alle nove di sera quando gli amici, dopo cena, arrivavano alla Bussola. E, poi, The Dark Side of The Moon che non capivo ma che faceva sulla mia psiche di adolescente lo stesso effetto che mi fa, ora, il monolite di Kubrick.
Sono stato un punk in camicia e blujeans e, per certi versi, lo sono ancora in giacca e cravatta malgrado, come sempre, della mia vita abbia fatto tutt’altro. Non ho più visto il Sork che mi dicano viva in una bellissima villa gialla al mare con moglie e figli.
Paolo è sempre in giro anche se, ora, ha perso i capelli e assomiglia dignitosamente al nonno di Martin Gore, Gahan tiene botta con la voce, Exciter non si ascolta, Playing The Angel è solo un altro disco di transizione verso il nulla.
La lunga estate indiana: luci ed ombre a Baia Flaminia, una nuova ragazza con dei begli occhi, che caldo che fa ragazzi. A chi tocca pagare il conto? Dove si va stasera?

Ing. Pierpaolo Figanera