Il primo dei tre pezzi su Pesaro che ho letto a Va bene uguale, il reading di domenica 30 settembre organizzato dal Quilombo nell’ambito di PerepePè. Ho scoperto oggi che il Dolce Vita ha cambiato nome (ora si chiama Mhuu Bar) e ha fatto sparire la vetrata liberty.
Io Piazzale Lazzarini l’ho visto molto tardi. Prima vedevo un mucchio di cose: vedevo Harnold’s, il teatro, la fontana, i portici con il distributore di preservativi, palazzo Cermatori, il Cavalcavia, la Madonna dei Cappuccini, i gazebo dei bar e delle gelaterie, la banca all’angolo con via Curiel, l’entrata della galleria Roma, le palazzine sulla destra e i palazzoni sulla sinistra. Ma Piazzale Lazzarini come entità organica, nel suo insieme, l’ho veduto tardi.
Forse perché quando vengo qui, sono subito investito da un campo di forze fatto di transiti e di attese, di tensione tra le direzioni possibili, di polarità in opposizione. È come immergersi nel mare e sentire la pressione delle correnti. Probabilmente perché questo luogo è l’omologo speculare di Piazzale della Libertà, un confine radicale, che si getta nell’acqua e nell’orizzonte senza il processo graduale della spiaggia. Anche in Piazzale Lazzarini, come là, c’è un limite: qui, dice Piazzale Lazzarini, e lo dice perentorio, qui finisce il centro. E il confine del centro è qua raffigurato come il confine del mondo, segnato da un cavalcavia che si innalza nel cielo.
Allora, nello stesso momento in cui sono riuscito a vedere Piazzale Lazzarini, ho pensato che tutta questa compulsione al movimento deve essere qualcosa che ha a che fare proprio con quel limite, come una turbolenza gravitazionale che si produce in prossimità di un varco dimensionale.
Qua, sulla frontiera, si genera uno spazio ibrido tra centro e periferia: i mondi irrompono uno dentro l’altro infischiandosene di quel confine così segnalato dalla pavimentazione, dai sampietrini che bruscamente terminano per lasciare il dominio all’asfalto della strada: alla tua sinistra ci sono già i casermoni, sono già entrati, hanno già sfondato la dimensione, sono qua, esattamente come oltre la linea, sulla via di Pantano, puoi vedere case basse d’altri tempi.
Del resto le soglie sono fatte per essere attraversate. Piazzale Lazzarini è un luogo del nomadismo, lo attraversi per andare e tornare dalla stazione dei treni. È un luogo di saluti, e in molte lingue diverse. È un luogo dove nelle auto ferme rimane sempre qualcuno, perché quelle auto sono lì per raccogliere qualcuno o per lasciare qualcuno, ogni sosta qui è temporanea. Piazzale Lazzarini è sostanzialmente invisibile perché è una piazza vissuta come se fosse una strada. È un luogo nel quale non si passeggia: si transita; nel quale non ci si ferma: si sosta.
E a rendere il tutto ancora più instabile è un’altra caratteristica che immagino sia tipica delle turbolenze gravitazionali: qui, nei movimenti, domina la forma del vortice, domina nelle traiettorie tangenziali delle auto che arrivano da via Oberdan e circumnavigano l’ospedale, domina nelle improvvise inversioni a U dei vascatori di via Branca. Quando sono qui mi sento sempre al centro di uno svincolo intergalattico: gente che va e viene, trolley che macinano il selciato, gente che si chiama dal parchetto al bar, motorini che arrivano, motorini che partono. Osservo con invidia, e con una certa ammirazione, coloro che siedono ai tavoli esterni del Dolce Vita, che si rilassano là, vicino al confine di via Oberdan, che bevono impassibili un chinotto o una cedrata a ridosso del limite, del tornado di automobili e motorini e ambulanze a sirene spiegate.
Il Dolce Vita è un posto esemplare, per comprendere Piazzale Lazzarini, per comprendere come lungo le orbite irregolari che si creano attorno ai varchi dimensionali, possa capitare di veder galleggiare gli oggetti più disparati ed estranei al contesto, come il Dolce Vita, appunto, un bar strappato a qualche lungomare e calato qua come la casetta della Madonna a Loreto, al posto del cielo balneare i volti oscuri e troppo vicini dei palazzi.
Il Dolce Vita è un residuo, perché questo continuo movimento umano sulla frontiera dei residui li lascia. Intorno alla non permanenza delle persone, si genera la permanenza delle cose, pezzi di diversi mondi che vengono abbandonati qua e che qua continuano a vivere. Solo che permanendo tutti insieme, i pezzi dei diversi mondi, i loro significati, le loro suggestioni si annullano nella tensione degli opposti. Così accade che Piazzale Lazzarini coltivi pervicacemente il suo carnevale orizzontale di giostre, teatri e pasticcerie all’antica, all’ombra della verticalizzazione moderna più gigantesca e oscena, quella dei palazzi che lo sormontano. O accade talvolta che i poli opposti, invece che annullarsi, si concretizzino qui in unità impossibili, contraddittorie, incongrue, delle quali si può affermare qualsiasi cosa e il suo contrario, per esempio si può dire che un fast food, simbolo eccellente della globalizzazione, è fieramente locale, che Harnold’s ce l’abbiamo solo noi, e che sul lato opposto della strada ci sono negozi di catena, ma non c’è la catena: sono puntivendita locali di una catena globale solo immaginaria, ma immaginata molto chiaramente da chi li ha pensati.
Un accumulo irriflessivo, casuale, nel corso dei tempi, che produce una stratificazione geologica visibile. Il Teatro, Harnold’s, il Dolce Vita e il Dolce Caffè: in quale epoca vuoi entrare? L’Ottocento? I primi del Novecento? Oppure vuoi ridurre i secoli a decenni? Gli anni Ottanta? Gli anni Novanta? Piazzale Lazzarini è anche un museo, dove epoche e luoghi convivono in uno stessa epoca e in uno stesso luogo. Se oltre il Cavalcavia c’è la periferia, che rinnova costantemente un moderno scolpito nell’eterno; e se alle spalle c’è il centro, dove i franchising riescono ad annullare completamente la stratificazione storica, tanto che non la senti più, nel lusso del candore asettico dei negozi di mutande o di smartphone, qui in Piazzale Lazzarini l’accumulo è enigmistico: dalla parte opposta al Dolce Vita c’è il Dolce Caffè. Se Dolce Vita era un nome che fino a venti anni fa aveva un senso suo preciso, ecco che la condivisione dell’aggettivo Dolce con l’ennesimo nome da bar del nulla – Dolce Caffè, Caffè scuro, Caffè nero, Nero caffè, Bianca caffetteria del corso, l’ennesimo nome dato in automatico – ecco che contamina anche il nome del Dolce Vita, un bar vecchio che vorrebbe essere antico, che si interseca con un bar nuovo che manco si preoccupa di essere qualcosa. In questo museo vivente, anche il Dolce Caffè, nel suo essere un non-luogo quasi perfetto a cominciare dal nome, diventa espressione storica, documentante, di quell’epoca in cui si è deciso non consciamente che le epoche erano finite, e si esprimeva lo spirito del tempo attraverso un’estetica della fine delle epoche; solo che la storia in realtà non si ferma, e il risultato è che quei pretesi posti del presente eterno li percepisci irreparabilmente come posti di vent’anni fa: ci entri e vieni investito dalla musica house passata al vocoder, dalla tarda new age virata di etnico ambientale: ciò che, con una spallata liberatoria, voleva sfondare il muro della storia, è riuscito solo a piombare negli anni novanta eterni. La sovrapposizione qui trasforma la memoria in memoria della memoria. Intorno al ’93, veniva dipinto, sull’ultima parete di Harnold’s, quella con la porta del bagno, un murale che rappresentava due figuri con occhiali neri e cresta ossigenata in stile new wave, due Righeira allungati da una lente deformante, come se ci si fosse accorti solo nel ’93 che Harnold’s, la paninoteca, la paninoteca disegnata come un labirinto di PacMan, era un posto clamorosamente anni Ottanta, e all’improvviso si volesse celebrare quell’immaginario, finendo invece per celebrare solo la tardiva presa di coscienza di averne fatto parte, perché il murale stesso rappresenta sì icone degli anni ottanta, ma in colori e tratti irrimediabilmente postumi. Poco più in là, il Dolce Vita, contento del Novecento come Paolo Conte, resiste eroicamente coagulando le forze nella sua vetrata liberty, radicandosi in una storia che non ha e che forse non ha mai avuto. Ma che importa, qua il bello anzi è proprio questo.
Museo non filologico, area di movimento continuo che la rende invisibile, Piazzale Lazzarini è un luogo del nulla perché è un luogo del tutto: afferma tutto contemporaneamente, e gioiosamente a caso. Entropia, si direbbe al bar. E tuttavia, se infine sono riuscito a vederlo, deve avere una sua forma, qualcosa che lo definisce, lo chiude. Mi sono domandato: cos’è che chiude la forma, qui?
È assurdo: a chiudere la forma, in Piazzale Lazzarini, è il lato aperto. Il lato aperto, qui, coincide con il limite. Del resto l’equazione è elementare: in un luogo dove il nulla è generato dal fatto che c’è tutto, il tutto può essere arginato solo dal niente. Il limite sta dunque là, dove il cavalcavia e la Madonna si fondono in un’unica entità: il ponte verso il cielo. Il ponte verso il cielo è qui l’unica linea di tensione che non incontra mai il suo opposto: non si vede verso cosa è ponte, apre a una terza dimensione che non è né spazio né tempo. Ogni giorno, ogni notte, mentre tutto in Piazzale Lazzarini si muove, mentre le epoche si schiacciano una sull’altra, il ponte verso il cielo ostinatamente si inarca nel vuoto, ma tu sai che quel ponte non finisce nel vuoto: porta in periferia. Eppure da qui puoi solo guardarlo innalzarsi verso il cielo senza riuscire a cogliere niente di ciò che sta al di là di esso. Ne risulta uno scenario grandioso: l’accesso alla periferia, che nella letteratura specialistica è luogo del nulla per eccellenza, si presenta a Pesaro nella forma di una rampa di lancio verso il cielo affiancata da un simbolo sacro. Piazzale Lazzarini trasforma la periferia immaginata in un trascendente concreto, e una periferia concreta in un polo dell’immaginazione. Credo siano poche le città che possano vantare una tale implicita esaltazione delle loro periferie.
(qui il secondo luogo del nulla)