Pensieri sui libri di Angelo Calvisi

Calvisi ha scritto una trilogia: Maledizione del sommo poeta, Il geometra sbagliato, Principe di Persia. Maledizione del sommo poeta cambia completamente se, dopo averlo letto, si legge Il geometra sbagliato e si ripensa il primo libro alla luce del secondo. Perché Maledizione del sommo poeta è un libro che lì per lì si prende a ridere: perché la figura del visionario, del rimastone, del tipo che si fa i viaggi, ottiene, come risposta automatica della cultura diffusa, il riso. Ma poi la lettura del Geometra sbagliato agisce retroattivamente sul lettore: ci si vergogna di aver riso. Perché ci si rende conto che in realtà non c’è alcuna differenza – nell’universo di Calvisi – tra la fenomenologia del rimastone e quella della persona affetta da disagio mentale, cambia solo lo schema culturale di riferimento, nel primo caso la reazione è il riso, nel secondo la tristezza e la compassione. È vero che, man mano che si cresce, i rimastoni fanno sempre meno ridere e mettono sempre più malinconia. Ma c’è qualcosa che rimane, anche solo a livello di consuetudine sociale, di aspettative altrui alla fine del racconto degli aneddoti del paesello, che si fatica sempre a eliminare del tutto. Ecco, forse bisogna pensarci. Perché poi tu leggi Maledizione del sommo poeta e pensi che insomma, è un libro, è fatto apposta, è fatto apposta perché tu rida, nessun matto è stato preso in giro per scrivere questo libro, niente di tutto ciò è successo. Allora ridi. E poi, quando leggi il secondo e capisci qual è il tema della trilogia, pensi: cacchio, non c’era niente ridere. E allora pensi a tutte le altre volte che non c’è niente da ridere, pensi che non c’è da ridere nemmeno per scherzo, nemmeno dell’idea platonica.

Perché poi in Calvisi non c’è alcuna immagina romantica del matto. Il matto non è un genio, il matto non è oracolare, il matto ha anche visioni grette, provinciali, imprecise, deragliate dall’immaginario più banale: Dante al reparto reggae del negozio di dischi che “ha i rasta” (cioè i dreadlock) e si fa una canna.

Da Principe di Persia:

E così siamo montati a cavallo, anzi sono montati Geeva e gli uomini in nero. Sulla groppa di questi fantastici animali, che la mia vista non può contenere con un’unica occhiata, galoppiamo verso la destinazione definitiva. Sono ripiegato su me stesso dentro lo zaino che Geeva porta sulla schiena. La corsa dei cavalli si distende tra i sentieri di una foresta dove la terra è fatta di terra, e l’acqua del fiume non è altro che acqua, e tutto è quello che è, solamente quello che è.

Gli animali fantastici che la vista non può contenere con un’unica occhiata mi hanno ricordato la Poetica di Aristotele, è la stessa immagine che Aristotele usa quando dice che la narrazione deve poter essere abbracciata da un solo sguardo della memoria, che il racconto deve essere fatto in modo che il lettore se lo ricordi tutto, mentre legge. Allora ho pensato che, sempre nella Poetica, Aristotele dice che la causalità del racconto deve essere più forte di quella della realtà, in cui tra molti eventi non c’è concatenazione. Nella trama no, nella trama gli eventi devono essere collegati da una causalità forte. Invece il Principe di Persia dice che “la terra è fatta di terra, e l’acqua del fiume non è altro che acqua, e tutto è quello che è, solamente quello che è”. Calvisi registra la realtà, le sue narrazioni sono piene di azioni che non si possono ricordare con un solo sguardo della memoria perché la causalità è debole, perché Calvisi riporta la realtà (anche se è una realtà che ha inventato lui) esattamente come è, con la sua frammentarietà, la sua causalità debole, la contingenza degli eventi. Non è detto che questo sia un bene per il lettore, cognitivamente è abbastanza pesante e dispersivo, ma sembra un’operazione concettuale e mi sembra interessante.
Se nella causalità forte della narrazione noi, per un patto tra autore e lettore, vediamo l’imitazione della realtà, quando in realtà la realtà è fatta di contingenze decisamente più slegate, e se nella follia, rispetto alla realtà, noi vediamo una minor capacità di comprendere i legami tra le cose che popolano la realtà, allora un modo per rappresentare la follia nella narrazione è quello di registrare la realtà: l’effetto, stante il patto tra autore e lettore, è quello di assistere alla visione del mondo di un folle, con un focus d’attenzione che si sposta continuamente su cose che non hanno una stretta correlazione con la coerenza del racconto, ma come se ce l’avessero (perché è un racconto e ce lo aspettiamo).

Principe di Persia, poi, almeno nella prima parte, è narrato come un romanzo d’avventura, solo che il protagonista è matto. Anche la parte persiana, quella presa di peso dal videogioco, è narrata come un romanzo d’avventura, ma accade come un videogioco: nel videogioco la grafica è funzione dell’ambientazione, ma l’azione non è correlata in modo forte alla trama, si può pensare anzi che la trama di un videogioco è concepita come pretesto per stressare l’abilità manuale del videogiocatore; anche le sottotrame, i piccoli schemi, le microsequenze, sono relativamente libere dalla trama generale: quindi se l’ambientazione dà atmosfera, spesso, di contro, le azioni non danno vita a una struttura narrativa coerente o anche solo interessante, evolvente: la prima parte Principe di Persia narra con il piglio di un romanzo d’avventura accadimenti che hanno una non-trama da videogioco, e vi regna tutta la plurivocità e multidirezionalità – che si risolve nell’immobilità – del disagio mentale, una frenesia circolare, senza futuro.

Nel Principe di Persia, rispetto agli altri due romanzi, della trilogia, il protagonista è più attivo, si lascia meno vivere, interagisce con il contesto in maniera più decisa, dà addirittura vita a una rivolta. Filippo La Porta, in riferimento al Geometra sbagliato, scrive che la malattia nega l’altro e la sua diversità, più precisamente scrive di immaginazione masturbatoria, autoreferenziale, che nega l’altro e la sua diversità. Noi, in ambito morale, biasimiamo chi sente poco o male, trattiamo l’iposensibilità come fosse un atto volontario, imputiamo una colpa, non ci viene mai in mente che essere iposensibile possa essere un handicap. Mi pare che invece Il geometra sbagliato riesca a fare questo: a portare empatia e compassione verso uno che, per dire, non riconosce la moglie e l’assimila ad altre donne. Di questo personaggio, e di quello di Maledizione del sommo poeta, nei due romanzi c’è tutta la passività. Invece, nel Principe di Persia, il protagonista è attivo, ma è talmente attivo da trovare una sua via d’uscita. Quindi nei romanzi di Calvisi c’è o la compassione per una situazione involontaria (Sommo poeta, Geometra), o l’apprezzamento per una capacità di autoredenzione spinta dalla volontà (Principe di Persia). Calvisi sembra dire che dove c’è una deficienza del sentire non c’è volontà (Sommo poeta, Geometra), e dove c’è volontà vedrai che c’è una via d’uscita, dove c’è volontà c’è redenzione (Principe di Persia), perché il male è un handicap non una colpa.

C’è un’ambiguità nel Principe di Persia, nella figura demiurgica di Mechner, il programmatore del videogioco, e nell’incontro tra il protagonista e il demiurgo Mechner. Nell’ultima parte il protagonista sembra essere per la prima volta cosciente di essere in un videogioco. Dopo un crescendo, nel quale il protagonista esce dal videogioco e si ritrova nel reale, il protagonista torna nel videogioco ma rendendosi conto che è un videogioco: ha la lucidità – per la prima volta – di comprendere dove si trova. A quel punto viene bersagliato, minato nella mente, c’è un deragliamento linguistico e uno si chiede “ma non era arrivato alla lucidità”? Poi capisci che c’è un’attività che non dipende da lui, è un’attività di cui la sua mente è vittima, e appare il padre eterno, Mechner, la matrice: è lui che lo sta attaccando. Alla fine Mechner lascia al protagonista la possibilità di scegliere di quale memoria (reale) vuole vivere, da dove ricominciare. Mi pare ambiguo questo demiurgo che ti chiude in un videogame e poi compare come un guardiano di fine ultimo livello e ti lascia la possibilità di vivere nel reale, ma a pensarci bene è il videogioco stesso che è fatto così: se porti a termine la missione hai vinto, sei libero. La volontà del protagonista, che si muove autonomamente e in rivolta, è premiata con la grazia del demiurgo Mechner.