Non ho letto il libro di Vito Mancuso, L’anima e il suo destino. Lui è anche simpatico, mi piace come parla. Un po’ meno quello che ha detto stasera da Gad Lerner: Dio c’entra con la scienza perché il Logos è ciò che tiene insieme qui i miei atomi.
Vero. Falso.
Vero e falso perché se il Logos è ciò che permette agli atomi di stare insieme quando secondo le sue leggi devono stare insieme, allora è anche ciò che permette agli atomi di dividersi quando per le sue leggi devono dividersi. E il Logos darebbe ordine al nulla, nel suo essere nulla, se l’insieme delle cause avesse prodotto il nulla, esattamente come dà ordine alle cose, nel loro essere cose, nello spazio in cui sono. Il Logos garantisce l’ordine della realtà, non è una cosa. Il Logos permette all’eccedenza, alla possibilità, al caos che sta nel fondo oscuro, nell’altro lato della realtà, di prendere una forma determinata nel tempo e nello spazio, di essere di istante in istante secondo l’unica possibilità che la configurazione del mondo permette in un dato istante.
È un concetto (motivato) ontologico, non una sostanza o una tensione fisica.
Mancuso sta cercando di fare un errore radicale e ci sta riuscendo benissimo: far di Dio un ente: roba da peccatori, secondo Eckhart. Portare Dio in una parte della natura, farlo stare in qualche posto nella natura: roba da Lovecraft.
Che due palle, Orazio
Spesso chi crede che la filosofia sia quella che insegnano pessimi professori di liceo abbandona ogni confronto dialettico di un certo spessore con la ritrita citazione “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante la tua filosofia ne possa sognare”. Fermo restando che 1. Shakespeare andrebbe anche letto oltre che citato; 2. della filosofia di Orazio risponde Orazio, e non l’interlocutore di turno; 3. un buon modo per distruggere scrittori anche interessanti come Shakespeare Wilde o Nietzsche è continuare a fare delle loro frasi slogan che alimentano la noia e infine la nausea; andrebbe spiegato di volta in volta al ripetitore d’aforismi – giusto per non rendersi complici della stagnazione – che il problema della filosofia non si pone tanto quando in cielo e in terra ci sono più cose che nella filosofia – eventualità serenamente considerata dal filosofare sui limiti della filosofia – bensì quando in cielo e in terra ci sono meno cose che nella filosofia. Il problema di avere nel mondo più cose di quante il proprio schemino ne consideri è un problema dell’ideologia, che ripudia la filosofia allorché questa potrebbe dimostrare che, appunto, ci sono più domande di quante l’ideologia ne possa tollerare.
Tu quoque Socrate
Si veda il Critone. Socrate è in galera, condannato alla cicuta. Critone vuole aiutarlo a fuggire, altrimenti gli Ateniesi lo considereranno un traditore degli amici. Socrate gli dice: ma ti rendi conto che non dovresti vergognarti di quello che pensa la gente di te, se ha torto? Ti rendi conto che dovresti vergognarti di vergognarti di una cosa come questa? Io non fuggo: ho stretto un patto con le leggi di Atene, ho scelto io di abitare qui, di sottostare alle leggi e di rischiare. Ora mi prendo le mie responsabilità. Non riesco a fare altrimenti: questa roba mi incatena come i ritmi dei coribanti.
L’interlocutore socratico, in genere, si vergogna solo di ciò che è sanzionato con il biasimo da parte della comunità, cioè si vergogna dei contenuti del suo pensiero e delle sue azioni, non della forma del suo ragionare. E si vergogna dei suoi pensieri biasimevoli solo se sono espressi o intuiti, e delle sue azioni biasimevoli solo se qualcuno vi assiste: se Socrate non fuggisse, Critone, pur se riconoscesse dentro di sé la validità dei ragionamenti socratici, si vergognerebbe di fronte agli Ateniesi.
Diversamente Socrate controlla continuamente Socrate sul piano formale: ho stretto un patto, dovrò rispettarlo; non posso permettermi X, non stringerò un patto in cui mi impegno a fare X. A Socrate non sembra interessare il biasimo o la lode sui contenuti: a Socrate sembra interessare solo la correttezza deduttiva, di cui lui stesso si fa testimone. Stante quella, lui non ha problemi.
Fila tutto liscio, a quanto pare, nel Critone. Però c’è da far caso a come fila tutto liscio. In questo dialogo non ci sono solo Socrate, Critone e gli Ateniesi di Critone.
Prima di tutto Socrate fa comparire il fantasma dell’Esperto, che è l’unico, dice, di fronte al quale ci si deve vergognare: l’Esperto sa riconoscere il buono stato dell’anima; tradotto dal socratico: sa vedere la simmetria delle opinioni e delle azioni.
Ora, non è che questo Esperto che non si sa dove stia ne sappia più di Socrate, dato che Socrate quella correttezza deduttiva la sta effettivamente mettendo in pratica. Ugualmente Socrate chiama a testimone questo fantomatico Esperto ponendolo come una figura esterna, probabilmente intendendo il dio.
Dopodiché, parlando degli impegni che ha preso con le leggi di Atene, Socrate fa comparire le Leggi. Dice a Critone: pensa se io fossi lì lì per fuggire e in quel momento arrivassero le Leggi a biasimarmi per la mia incoerenza. Non avrebbero ragione di svergognarmi?
E poi, quando morirò e andrò nell’Ade, non arriveranno le Leggi dell’Ade a farmi i medesimi discorsi? Caro Critone, come vedi non può fare.
Personificazioni. Queste sono personificazioni.
Nemmeno Socrate è riuscito a farsi unico testimone di se stesso. Nemmeno lui è riuscito a fare a meno dell’idea di uno sguardo esterno che vedesse la sua coerenza.
Iodio
Qualcosa di buono mi è stato accanto tutto il pomeriggio, iniettando in me il sospetto, quasi la certezza, che oltre il cortile, oltre il funk rumeno, oltre il lato opposto del palazzo, e magari dopo altri tre metri, San Salvario finisse. Che cominciassero viali alberati, aria tersa e colma di salsedine, ville di persiane colorate e infissi lavorati, sabbia fina che si alza con la brezza.
Poi son dovuto andare a fare la spesa.
Non va.
Qualsiasi cosa tu sia, grazie davvero.
Ma non sei casa mia.
Pensare a voce troppo alta
Il pensiero più innovativo si fa strada nelle scuole? È circondato da un clima di riconoscimento generale? Raggiunge l’orecchio interno, anche se il processo uditivo è spesso ostinatamente lento e carico di volgarizzazione? O invece il pensiero autentico e la sua valutazione ricettiva sono impediti, perfino distrutti (Socrate nella città dell’uomo, la teoria dell’evoluzione tra i fondamentalisti), da un rifiuto a pensare di stampo politico, dogmatico e ideologico? Quale meccanismo sordido, ma comprensibile, di panico atavico, di invidia subconscia alimenta la «rivolta delle masse» e, oggi, la brutalità filistea dei media che hanno reso derisoria la stessa denominazione di «intellettuale»? La verità, insegnava il Baal-Shem Tov, è in esilio perpetuo. Forse deve esserlo. Laddove diventa troppo visibile, dove non può rifugiarsi dietro la specializzazione e la crittografia ermetica, la passione intellettuale e le sue manifestazioni provocano odio e derisione (questi impulsi si intrecciano con la storia dell’antisemitismo; gli ebrei hanno sempre pensato a voce troppo alta).
George Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero
L’aria generale
Questi attacchi alla tradizione razionalista occidentale sono particolari sotto molto aspetti. Innanzitutto, il movimento in questione è in gran parte limitato a diverse discipline umanistiche, come anche ad alcuni dipartimenti di scienze sociali e a determinate scuole di giurisprudenza. La componente antirazionalista della scena attuale ha avuto – finora – una scarsa influenza nella filosofia, nelle scienze naturali, nell’economia, nell’ingegneria o nella matematica. Benché alcuni dei suoi eroi siano filosofi, essa ha avuto scarsa influenza nei dipartimenti di filosofia americana. Si potrebbe pensare che, poiché gli argomenti in gioco sono profondamente di natura filosofica, il dibattito sul curriculum, legato al desiderio di rovesciare la tradizione razionalista occidentale, debba imperversare nei dipartimenti di filosofia. Ma, per lo meno nelle principali università di ricerca americane, non è così. I filosofi accademici trascorrono molto tempo affannandosi attorno ai confini della tradizione razionalista occidentale. Sono ossessionati da domande del tipo: “Qual è l’analisi corretta della verità?”, “Come fanno le parole a riferirsi a oggetti del mondo?” e “Le entità inosservabili postulate dalle teorie scientifiche esistono davvero?”. Come il resto di noi, tendono a dar per scontato il fulcro della tradizione razionalista occidentale persino quando stanno dibattendo sulla verità, il riferimento o la filosofia della scienza. I filosofi che rigettano esplicitamente la tradizione razionalista occidentale, come Rorty o Derrida, hanno molta più influenza nei dipartimenti di letteratura di quanto non ne abbiano in quelli di filosofia.
Un secondo aspetto, per certi versi più sconcertante, è che è molto difficile trovare argomentazioni chiare, rigorose ed esplicite contro gli elementi fondamentali della tradizione razionalista occidentale. Di fatto, non è tanto sconcertante se si considera che parte di ciò che viene attaccato è l’intera idea di «argomentazioni chiare, rigorose ed esplicite».
[…]
A volte le “argomentazioni” si presentano più come slogan e gridi di battaglia. Ma l’aria generale di frivolezza vagamente letteraria che pervade la sinistra nietzscheanizzata non viene considerata un difetto. Molti di loro pensano che questo sia il modo in cui si suppone debba condursi la vita intellettuale.
John Searle, Occidente e multiculturalismo
Don't believe the hype
Recensioni, recensioni,
recensioni.
Così fitte di
condizione smarrita e
radicale alterità.
Fate andar del tutto fuori
ciò che solo sta a metà.
Tempo
Non chiederei mai indietro
il tempo
dell’errore, dell’attesa,
dell’asmatica ripresa
nel dopo della sbornia,
della via presa sbagliata,
concreta o figurata.
Il tempo che ho sprecato
non è oggetto di pretesa.
Ma diobòno il tempo
dei ritardi ferroviari,
delle connessioni lente e
degli windows da rifare,
quello, cazzo, è rapinato.
Nella condizione irrevocabile
Il fatto che si possa decidere di recarsi e vivere nel futuro non significa che chiunque possa tornare indietro nel tempo ogni volta che lo desidera, quindi la mia massima aspirazione – svegliarmi ogni giorno alle cinque del mattino – non è assolutamente favorita dall’esistenza dei viaggi nel tempo. I viaggi nel tempo sono istituzionalmente regolamentati, forzatamente collettivi – dato che sarebbe un delirio organizzarne di individuali, e quindi non si può scegliere a piacere il momento in cui si torna – e tecnicamente macchinosi: ci sono due convogli al giorno, uno alle dieci del mattino e uno alle diciotto, tre nei giorni festivi, durante i quali è previsto un convoglio serale alle ventidue. È la prima volta che vengo nel futuro, però ti chiamo spesso, quasi due volte al giorno, anche perché dal passato tu non puoi chiamarmi per una qualche ragione che un paio di individui – dei quali una eri tu – hanno tentato di spiegarmi senza ottenere risultati. Intanto noi mangiamo e dormiamo qui nel college dove io sto curando un abstract sul lavoro di un’artista italiana contemporanea -contemporanea qui -, Marzia Beltrami, le cui opere – almeno quelle disponibili qui al museo del college – sono delle sfere trasparenti che contengono omini vestiti da Santa Klaus, tronizzati su stelle argentee dall’aspetto marino o in paesaggi di tecnologia superata, feticci di macchine a energia manuale; qui abbiamo tre sfere di diverse grandezze, due maggiori e una minore. La cosa interessante è che la persona che dovrà giudicare il mio elaborato è la stessa cui, in uno studio di legno di ciliegio, chiedo di mostrarmi come se ne scriva uno e che di fatto redige sul momento una metà di quello che io le dovrò presentare.
Poi gliene diede un secondo
Da Erano solo ragazzi in cammino, di Dave Eggers, traduzione di Giuseppe Strazzeri:
«Buongiorno!» disse mio padre sopra di me.
Il saluto con cui lo ricambiarono non fu amichevole. Alzai lo sguardo e vidi tre uomini, uno dei quali portava un fucile appeso a tracolla con un pezzo di corda bianca. Lo riconobbi. Era l’uomo che sorrideva presso il fuoco, quella sera. Quello che aveva chiesto a mio padre che cos’era il Cosa.
«Ci serve dello zucchero» disse il più piccolo dei tre. Non era armato ma chiaramente era il leader. Parlava soltanto lui.
«Ma certo» disse mio padre. «Quanto ve ne serve?»
«Tutto, zio. Tutto quello che hai in negozio.»
«Vi costerà un bel po’, amico mio.»
«Questo è tutto?»
L’uomo afferrò il sacco da venti sisal appoggiato in un angolo.
«È tutto quello che ho.»
«Bene, lo prendiamo.»
L’uomo piccolo prese il sacco sulle spalle e si girò come per andarsene. I suoi compagni erano già all’esterno del negozio.
«Aspetta» gli disse mio padre. «Forse non intendi pagare?»