L’ultimo ammicca

Da Così parlo Zarathustra, di Nietzsche:

“La terra allora sarà divenuta piccola, e su di lei andrà saltellando l’ultimo uomo, che renderà tutto piccino. La sua schiatta è indistruttibile come la pulce di terra; l’ultimo uomo è quello che vive più a lungo di tutti.
Noi abbiamo inventato la felicità, dicono gli ultimi uomini, e ammiccano.
Hanno abbandonato le regioni dove era duro vivere: perché c’è bisogno di calore. Si ama ancora il prossimo e ci si strofina a lui: perché c’è bisogno di calore.
Ammalarsi e diffidare è per essi peccato: e si va avanti guardinghi. Pazzo chi ancora incespica sulle pietre o sugli uomini!
Ogni tanto un po’ di veleno: esso fa sognare gradevolmente. E alla fine molto veleno, per gradevolmente morire.
Si lavora ancora, poiché il lavoro è un modo di passare il tempo. Ma si cerca di fare in maniera che questo divertimento non danneggi.
Non si è più poveri o ricchi: entrambe le situazioni sono troppo impegnative. Chi vuole ancora dominare? Chi vuole ancora obbedire? L’una e l’altra cosa sono troppo impegnative.
Non un pastore e il suo gregge! Ognuno vuole la medesima cosa, ognuno è uguale; chi sente altrimenti, va diritto al manicomio.
In altri tempi tutti erano pazzi, dicono i più raffinati e ammiccano.
Si è saggi e si sa tutto ciò che è accaduto: così non si finisce mai di sorridere. C’è ancora chi s’arrabbia; ma ci si rappacifica presto per non sciuparsi lo stomaco.
Si possiede la piccola gioiuzza per il giorno e il piccolo piaceruzzo per la notte: ma si rispetta la salute.
Abbiamo inventato la felicità, dicono gli ultimi uomini e ammiccano.”

Peggio di un nemico

«Io il meccanico non lo faccio», dice Diego, troncando il discorso. È più arrabbiato adesso di quanto lo sia stato per tutto il giorno. È arrabbiato perché non capisce, che non è come essere arrabbiati per qualcosa che non ti piace. Che senso ha fare un gesto del genere, rovinarti il compleanno e poi ripararti la moto? È un modo per chiedere scusa? È un modo per dire: sarò sempre più bravo di te? Un padre è peggio di un nemico, pensa. Non puoi combatterlo ad armi pari. Non puoi scappare e nemmeno ignorarlo, perché ti segue dovunque vai. E alla fine, anche quando sarà stanco e ferito, ti mancherà sempre il coraggio di dargli il colpo di grazia. Diego immagina la vita degli adulti complicata come le automobili moderne: troppa plastica, troppa elettronica, e tutta quella potenza affidata a un sistema così delicato. Basta uno scherzo dell’impianto elettrico e ti ritrovi schiantato contro un muro senza nemmeno accorgerti che qualcosa non va. Lui ha sempre pensato alla sua, di vita, come alla meccanica elementare e perfetta del motore a due tempi: il cilindro che si riempie di miscela, la miscela compressa che esplode, i gas di scarico che lasciano il cilindro vuoto. Se c’è qualcosa da imparare, dopo questa giornata, è che la vita non sarà più così. Mai più.

Paolo Cognetti, Una cosa piccola che sta per esplodere

Lucidità 3

Esco dalla fotocomposizione, chiudo la porta di vetro e dietro di essa vedo la tipa della fotocomposizione che mi fa ampi gesti. Perché, mi domando, la tipa mi sta facendo ampi gesti?
Seguo i gesti e vedo, oltre il vetro della porta, una borsa nera appoggiata alla parete della fotocomposizione. Perché mi indica quella borsa nera, identica alla mia borsa nera, al di là della porta?
È la mia borsa. Riapro la porta. Ringrazio la tipa. Riprendo la borsa.
Vado alle poste, devo fare una raccomandata. Prendo il numero per lo sportello. Mi metto al trespolo dei moduli e incredibilmente c’è il modulo per una raccomandata (non c’è mai). Al trespolo siamo io e un tizio intento a compilare i suoi moduli. Compilo il modulo e proprio quando ho finito il tizio mi fa:
– Ma quello era il mio modulo!
– Oh, mi scusi, pensavo fosse qui.
Era qui: infatti era il mio modulo.
– Volevo dire: pensavo fosse già qui, offerto all’utente delle poste.
– No, era mio; ovvero: lo avevo richiesto affinché lo divenisse.
– Mi scusi ancora, gliene prendo un altro.
– No. Lasci stare.
Va via. È quasi ora che scatti il mio numero. Mentre aspetto guardo fuori oltre i vetri delle poste. C’è un piccione. Zampetta con l’aria imburnita, barcolla, non sembra del tutto sveglio. Mi somiglia: entrambi stiamo rimanendo da qualche parte dove non è il caso di rimanere.

Zion Train 2008 (ri-editing)

Pensa a una cosa che le accade prima di addormentarsi. Ci sono degli omini, degli automi. Fanno delle cose con gli arti e gli organi fonatori, fanno movimenti e suoni. In quel momento lei è l’occhio completamente estraneo che vede tutto questo obiettivamente, e questo è l’illecito assoluto, ovvero l’impossibile. E dunque, appena ne prende coscienza, la visione si dissolve.
Tiene il gomito nell’angolo del finestrino del treno. Sente sulla guancia la pelle rovinata del palmo della mano. Sente la punta del gomito vibrare con il treno. “Vado da Gabriele perché voglio vederlo”, si rigira nella mente questa frase. Le sembra fatta di parole senza contorni. Non afferrano le cose, come le ombre delle nuvole. Di notte scrive le sue lettere a Gabriele, scrive di come si sente, di cosa sente per lui. Al mattino rilegge le lettere prima di spedirle, e sono loro a dirle cosa prova. Quando se n’è accorta ha anche capito perché le lettere di Gabriele non le dicono nulla.
Sente sulla guancia la mano rovinata dal detersivo economico che usano nel ristorante dove lavora. Quando all’istituto pregava, le sue mani si univano ed erano lisce e morbide. Era come non sapere quale mano stesse toccando l’altra. “Ma di’ soltanto una parola e io sarò salvata”, solo questo ricorda. È sola nel vagone. Il colore del treno è della stessa pasta del sonno, fissa la campagna fuori, ed è come se in ogni istante si fosse appena voltata. Scava i piani del paesaggio, loro si allontanano. Il nome ‘campagna’ è esile, inconsistente, puro suono: stupido, strano nome. Parola. Oggi pensa che Gabriele è solo più abile a vivere nelle parole volanti, a saltare dall’ombra di una nuvola all’altra. Si fa notte e i campi spariscono prima che riesca ad aggrapparvisi.
L’esperimento la viene a trovare ogni giorno, da tanto tempo che non riesce nemmeno a ricordarsene. L’esperimento lo ha cominciato lei, crede. Ogni giorno lei lo ha provocato sperando in una determinata risposta, e ogni giorno lui ha restituito la risposta contraria, di giorno in giorno più chiara, più perentoria, più irrimediabile. L’esperimento non è più una sua volontà, è cresciuto fino a diventare enorme e contenerla: da tempo ha il sospetto che sia l’esperimento a provocare lei a provocarlo, lo fa per poterle dare ogni volta la risposta che lei non vuole e per non darle la risposta che lei spera di ottenere. L’esperimento si dispiega ormai istante per istante, senza che possa fermarlo. Oggi ha la certezza che è l’esperimento a sperimentare lei. Che è l’esperimento che ora le sta facendo cercare la campagna, per dimostrarle che la campagna non le dice nulla, che la sta portando da Gabriele, per renderle inequivocabile che Gabriele non è nessuno. Oggi è convinta che, una volta persa, la voce delle cose non può tornare; e che lei, una volta uscita, non può rientrare. Pensa che anche il treno è estraneo: anche se il treno e le cose corrono paralleli e non si toccano mai, pure essi appartengono allo stesso mondo.
La soluzione, pensa, è una parola semplice e pura, la più rara del mondo. Una parola della quale ognuno è dotato, ma che una volta perduta non si può diseppellire. Il treno si ferma. Sente salire un’acqua di alluminio nella bocca. Scende. Non c’è nessuno ad aspettarla. Esce dalla piccola stazione. Nella notte attraversa la città, palazzi ignoti. Pochi sconosciuti non la vedono e parlano di vite riuscite. Ma non ha più invidia, né vergogna. L’orizzonte buio oltre i palazzi si allarga al tempo dei suoi passi. Gli va incontro e lui diventa immenso. Ora la sabbia le appesantisce i piedi. Poi le piccole onde della riva le riempiono le scarpe. Cammina e non ha paura del gelo e del vestito che si gonfia. Pensa alle parole esatte del silenzio.

The verde

Non avevamo davvero sogni. Potendo, avremmo lasciato tutto com’era: lo sapevamo, in fondo all’anima, che dopo la laurea sarebbe stato impossibile continuare a fingere d’essere adulti. E forse non possiamo lamentarci, ché l’abbiamo avuta anche noi, la nostra parte di vita.
Ricordo infatti la scrivania di ciliegio e la pioggia sui tetti rossi oltre la finestra. Ricordo la musica del piano e il calore dei termosifoni. Ricordo i libri della biblioteca e il giardino di via Frassinago in primavera.

Il dubbio atroce dell'anarchico

Mi sono capitati per le mani due libri appena usciti: due romanzi, di due autori nuovi per due case editrici diverse. Di un autore la casa editrice pubblica la foto in terza di copertina. E la pubblica anche a pagina 4: tutta pagina 4. Autore carino, aria scazzata, vagamente persa. Leggi le note autobiografiche e scopri che ha trent’anni ed è musicista. Leggi il romanzo e trovi frasi come “allora gli accadde la cosa più assurda di tutta la sua vita”.
L’altro romanzo, consigliatomi da più parti, è di uno sceneggiatore televisivo di affermato successo, ed è pubblicato da una casa editrice che si occupa di cinema e di corsi di scrittura. Una casa editrice trasversale. Il risultato è il romanzo che ho in mano: una lingua non irragionevole ma appiattita su una forma da script, punteggiatura completamente sballata e – orrore – un recidivo doppio punto esclamativo.

Vai in libreria, butti un occhio sul banco delle novità e quando prendi in mano qualcosa hai paura di leggere la biografia: copywriter quando va bene; impiegati mediaset, musicisti, scultori quando va male. Bene o male, si pensa a lettori ai quali di leggere un romanzo non è mai fregato nulla. Tanto tutto – musica, direzione artistica, narrativa, poesia, teatro – è la stessa cosa: così ho letto sul sito di un tuttofare, un grumo di accenti assenti e discordanze di genere tenuto insieme dagli elastici dell’ideologia.

Il venir meno della forma letteraria nell’inseguimento della forma estranea, spesso televisiva – o anzi nella riproposizione della forma estranea, spesso televisiva, dato che vien da pensare che l’autore produca ciò che rumina –, non è argomento inedito. Inedita forse è la quantità di materiale riversato sul mercato editoriale in questo momento, e quindi la quantità di danaro che le case editrici decidono di investire in testi non-proprio-letterari (a.k.a. quantità di danaro che decidono di non investire in testi proprio-letterari).

Il dubbio atroce dell’anarchico rimane sempre quello: il prezzo della libertà è un livellamento verso il basso? è la fine della critica e della mediazione?

 

Post scriptum
Penso al prossimo vudéi del signor Grillo e alla proposta di abolire i fondi statali alla stampa – anche se quelle di Grillo non hanno quasi mai l’aspetto di proposte, bensì di mattanze al machete. Penso al pubblico di italia uno che decreta la sopravvivenza di qualcuno e la scomparsa di qualcun altro, ma senza che gli vengano forniti gli strumenti per abbracciare un orizzonte più vasto. Penso che poi in fondo è giusto. Davvero. Solo che fa schifo.

Save the irraggiungibile: save the world

paint it black 2
Paint it black 2

Non posso lamentarmi, pure se le metafisiche vanno a pezzi tra le mani. Non ho sentimenti cosmici di pessimismo interstellare da postare. Non ho dèi da bestemmiare per errori di creazione. Però non ho la colazione, perché mi va di traverso, e la moka non funziona neanche bene. Ho da correre ogni giorno tra un bastone e un relatore e intanto ho un lavoro da aggiustare, ché così poi non va bene, non può fare. E fatico ogni nottata a prender sonno, e fatico anche a pensare a che cosa posso fare, dopo, domani, e temo ben dopodomani. È finita a quanto pare l’era dei vaneggiamenti. A giorni qua vaneggio solo perché non c’è più il pane. Devo stare dietro a tutti, e tutti nel frattempo vede bene di inculare. E non riesco neanche a dirti: dai, su, fammi sorridere. Perché io non ce la faccio, e non mi diverte affatto che il mio stato esistenziale abbia preso queste forme, che ai miei incubi di allora sia venuta questa idea di far gli anni assieme a me, maturare uguale uguale agli interessi dei strozzini, e in più con quella fotta tutta loro di farsi materiali: proprietà qualitativa. Profezia che si autoavvera? Dipartenza in auto nera. Chissà quando ho cambiato idea, sulla reincarnazione: quand’è che ho cominciato a non volerla. E non mi importa se non puoi più farci niente, non mi importa se i casini sono miei, se i cazzeggi sono miei, se le conseguenze poi alla fine resteranno tutte mie. Mi importa solo che hai capito. Sono io che non capisco, mo’, sono io che non capisco quando parli, non capisco ciò che dici, non ti seguo, nemmeno ad inventarti. Vedo bene che si muove la tua bocca, vedo bene che fai suoni articolati, ma non ne capisco il senso, e non posso farci niente, beibe, non ci posso fare niente, sono stanco di esser stanco e non trovo vie d’uscita. Il cliente che hai chiamato è al momento irraggiungibile.

Into McCandless

Tanto geniale quanto inattesa è la spietatezza di Into the wild, scopertosi, Sean Penn, crudele gigione.

La storia. Malgrado sia nato nel ’68, McCandless è un povero hippie: non reca sintomi della rivelazione punk e "ragiona" come uno che nel sessantotto c’aveva venticinque anni; brancola (vedi la foto) tra opposizioni concettuali borghesi, illusorie e stucchevoli, tipo naturale/innaturale e vero/sociale. Dopo aver affrontato il Padre Autoritario e lo Sbirro Repressivo, finalmente McCandless giunge nella Naturale e Vera Alaska. Naturalmente e da Vero Fricchettone, il libro sulle piante selvatiche lo ha letto in fretta e male. E così ne mangia una velenosa, e muore tristissimo perché si sente inutile e solo, e nemmeno l’orso lo considera. Sean Penn è un grande e io lo amo.

Appendice
Sublime l’effetto delle musiche: la favolosa colonna sonora di Eddie Vedder fa apparire tutto surreale. Che so: qualcosa tipo Shine On You Crazy Diamond mentre in controluce, sul sole che tramonta, al rallentatore, Banfi si prende a schiaffoni.

Andata e ritorno

Ieri sera ero così stanco che mentre leggevo mi sono addormentato e mi sono ritrovato a parlare con uno in un sogno. Questo mi chiedeva delle cose, ma, mentre tentavo di rispondergli, spiegandogli che non connettevo perché ero stanco, mi sono addormentato.

Mettete in conto che devo ripassare dal tizio, prima.