Centinaia di potenze
Questa recensione è apparsa sull’Indice di gennaio.
Nel Regno la libertà di coscienza e di fare progetti è negata. Ciò è deciso affinché nessuno soffra; ma, pure, affinché nessuno metta in moto la storia, ferma da sessant’anni all’ordinamento paraplatonico che vede i Grandi Avvilenti – cioè i sacerdoti della dissoluzione delle speranze – al vertice del regime morale e, subito sotto di loro, i guardiani del Regno, gli Uominineri; infine la gran massa dei popolani: contadini, pescatori, artigiani. Tristano è un Grande Avvilente, si reca in missione nei territori di sua competenza, accompagnato da Otre, l’Uomonero che lo affianca, per svolgere il compito più alto e sacro: denutrire le speranze, sgonfiare le gioie, calpestare la volontà. Perché, dice, la vita fa male, poi ti tradisce, le illusioni crollano, e a nessuno venga in mente di maturarne. E tuttavia nel Regno qualcosa si muove: piccoli centri si ribellano un po’ dappertutto, gli Eroi del popolo sorgono qua e là, belli, biondi, con gli occhi azzurri.
Forlani crea un secolo XVII alternativo e la lingua barocca adatta a descriverlo: ogni soggetto, oggetto o atto è iperdefinito, semanticamente isolato in gabbie fatte di molteplici termini; spesso l’azione è descritta da più verbi che si inseguono senza vocaboli intermedi; la scomparsa delle virgole tra i sostantivi disposti in lunghi elenchi disegna paesaggi dove non esiste il vuoto.
La dissipazione dell’energia
Questa recensione compare sull’Indice di febbraio.
Il protagonista del romanzo, Emiliano, esce dal carcere dopo aver scontato sedici anni per un omicidio che non ha commesso e del quale nemmeno desidera più sapere chi sia il colpevole. Fuori dal carcere, con una pistola in pugno, lo attende Omero, il padre del ragazzo ucciso. Ma Emiliano, l’arma puntata in faccia, si dichiara innocente, e Omero è perduto, perché il passato deve in qualche modo passare, e lui si è aggrappato in tutti quegli anni all’idea della vendetta: qualcosa che poteva permettergli di chiudere una volta per tutte i conti con il dolore. Tutto ciò che Omero può fare, ora, è stringere un nuovo patto con se stesso, inventarsi una nuova missione da portare a termine per poter poi sentirsi libero: deve trovare il vero assassino. Ed è intenzionato a coinvolgere Emiliano, perché Emiliano è una sonda da immergere nelle strade oscure del passato, ma è anche e soprattutto l’intero mondo che a Omero è rimasto. Emiliano, prostrato dalla vita, passivamente diviso tra l’istinto di sopravvivenza e una stanchezza assoluta che quasi lo rende disposto a farsi ammazzare pur di essere lasciato in pace – «Non l’ho ucciso io e mi sono fatto sedici anni di galera. Ho pagato abbastanza» – si lascia convincere per sfinimento dall’insistenza di Omero, che somiglia, dice, a «quei cani che prendono calci ma continuano a seguire il padrone e quando li si guarda negli occhi non si capisce perché».
Fèmili déi
[…] non bisogna stupirsi, né sospettare la malafede, quando le esortazioni alle virtù tradizionali della religione, della patria e della famiglia provengono da quelle stesse agenzie educative che presentano abitualmente quelle virtù come l’ultimo rifugio dei perdenti. A dare il massimo risalto al Family Day (un’iniziativa che porta nel suo stesso titolo il segno della resa alla logica della società dello spettacolo) sono stati i telegiornali delle reti Mediaset: cioè precisamente quell’apparato mediatico che attraverso i suoi specifici ‘valori’ – l’edonismo, il delirio consumistico, l’irresponsabilità nei confronti dei propri simili, l’irreligiosità – ha portato contro la famiglia un attacco infinitamente più violento di quelli che con le deboli armi della filosofia erano stati portati dai libertini o da Engels (prova ne è il fatto che la crisi della famiglia non comincia affatto nel Settecento o mezzo secolo fa, quando anche i comunisti si sposavano, battezzavano i figli e si conformavano a una morale puritana, e ipocrita, non molto diversa da quella dei cattolici, ma appunto nell’età del bombardamento mediatico, che insegna a trattare ogni valore, ogni virtù non indirizzata all’utile – e la dedizione per la famiglia è ovviamente una di queste virtù – come uno spreco di tempo). Chiunque abbia il fegato di vedere una puntata di programmi come Buona domenica (Canale 5) o La vita in diretta (Rai Uno) non ha bisogno d’altro per capire chi sono i responsabili della distruzione dei valori morali che stanno alla base della famiglia come degli altri istituti in cui si è organizzata sinora la vita civile: chi cioè ha, oltre che la forza, l’interesse a perpetrare questa distruzione. E tuttavia sarebbe sbagliato pensare che questa contraddizione tra le parole e i fatti venga consciamente, ipocritamente mascherata da coloro che hanno interesse a mantenere in vita sia la famiglia sia il sistema mediatico che la tiene in assedio. Si capisce soltanto ciò che si è preparati a capire, dunque non quelle verità che minacciano di dimostrare delirante un intero modo di vita (o, che è lo stesso, un intero modo di produzione). Risolvere o anche solo vedere questa contraddizione significherebbe criticare la vita moderna alla radice, cioè – per chi ha il potere e il denaro – perdere potere e denaro. La falsa coscienza, che è sempre una coscienza candida, scongiura questo redde rationem.
Claudio Giunta, L’assedio del presente
Ecco fera faccia di Gwar n.14
Ignora i segnali, le brecce, sorride e finge di niente, (va tutto bene! va tutto bene!,) fino a che il frastuono emesso dalla realtà raggiunge il volume assordante dei vecchi tempi.
L’Italia non weimariana – di Sergio Baratto
[…] Ho scritto che oggi l’elettorato premia la destra perché gli fornisce l’illusione di una risposta efficace alla paura. Ma non è nemmeno tutto qui. Troppo semplice, troppo assolutorio. È solo una parte del problema. Un’altra, molto meno assolutoria, ha a che fare con il male.
L’elemento originario su cui lavorano le forze negative è una poltiglia che non è ancora odio o paura, perché è ancora materia indifferenziata. È il grumo staminale da cui scaturiscono l’odio e la paura.
Oggi l’elettorato premia la destra anche perché gli fornisce la legittimazione della sua cattiveria. […]
Leggi l’articolo intero su Il primo amore.
La mania nell’alfabeto
Dopo la descrizione di un’esistenza votata alla scrittura con La mania per l’alfabeto, dopo il tentativo di dare una definizione metaforica o addirittura sostanziale della scrittura nel Diario dei sogni, con Domani avrò trent’anni (Eumeswil 2008) Marco Candida chiude il cerchio e sublima il contenuto nell’atto stesso di narrare: sul piano delle scelte formali c’è tutto quello che si trova nei romanzi di Candida – i racconti innestati, i resoconti maniacali, le autodescrizioni snervanti, una perfetta alchimia tra ossessione, psichedelia e audacia d’autore – ma senza che si parli della psicologia dello scrittore o della sostanza della scrittura, quindi senza alcuna possibilità di fornire o fornirsi, per quelle scelte formali, una giustificazione concettuale, e sostanzialmente senza alcuna struttura se non quella che si genera spontaneamente mentre l’autore fa in ogni istante quello che gli pare: tronca sequenze d’azione con resoconti degli oggetti più disparati, le fa ripartire, le conclude con atti di follia autoriale, gioca con la citazione, ridicolizza ciò che ha appena raccontato e svela particolari non irrilevanti a dieci pagine dalla fine. Ancora una volta nella rivendicazione di una completa libertà dai condizionamenti esterni, siano essi le consuetudini formali o le aspettative del lettore, l’io che narra esprime il bisogno di un’assoluta fedeltà alla realtà così come essa si manifesta nel flusso dei suoi pensieri e nell’urgenza delle sue passioni e volizioni; e ancora una volta il libro non è solo macchina della storia, è anche luogo di sincerità, di comunione con il lettore, spesso di confessione da parte di un io narrante profuso in una dialettica di autodifesa e autodenuncia. Ma a differenza di quanto avveniva in passato tutto è ormai racchiuso nel gesto del generare il testo, senza iniettargli una dichiarazione di intenti o la professione di una mania per l’alfabeto. E tuttavia l’idea di scrittura ne risente in qualche connotato acquisendo uno statuto ambiguo, perché il miglior pregio di Domani avrò trent’anni sta forse nel fatto che la narrazione conquista e avvince di più proprio quando si fa più ossessiva. Il che può contestare nei fatti, con il godimento stesso, un ideale di sanità mentale; ma può anche indurre il sospetto che la mania per l’alfabeto sia una mania intrinseca all’alfabeto. Con questa ambiguità la lotta tra autodifesa e autodenuncia che travolge l’io narrante si riflette sulla natura stessa della scrittura.
Questa recensione è uscita il mese scorso sul Riformista. L’ho scoperto stasera. Devo assolutamente dormire di più, per dormire di meno. (^__^)
En-Sof Vs Horobi (Idaro no Mechadabu Rumaka 2) 2008 (ri-editing)
Il ciclone si sposta sulla pagina obbedendo a leggi digitali. Là dove passa le lettere sono prese nel vortice e le righe si sciolgono in nuvole bianche e nere. Il ciclone batte il mondo a due dimensioni di Documento1. Ti domandi quali significati assumano le lettere trasformate nel vortice dello screen saver. Il monitor irradia candore sulla tastiera e sulla scrivania di legno. Evoca lo spettro del bicchiere con le penne. Gli occhi ti bruciano. Li strizzi. Quando li riapri sullo schermo c’è ancora la landa di Documento1 sconvolta dalla furia della tempesta. Senti odore di scarpe da ginnastica e ganja. Da quando sei uscito dalla discoteca un allarme monotonico suona impietoso accanto al tuo timpano. Hai la testa appoggiata sulle gambe della ragazza. La ragazza è addormentata, attorcigliata e trasversale, senza cuscino, il viso rivolto al soffitto. Ha gli occhi chiusi ma sembra che guardi in alto. Ha ancora addosso i pantaloni militari e la maglietta NY. Ha un aspetto familiare. Il display della sveglia segna le sei del mattino. Cambi posizione, ti rovesci, abbracci la ragazza, chiudi gli occhi. Cerchi di disseppellire il mondo sonoro che scorre al di sotto dell’allarme monotonico aggrappandoti al rombo di un aereo o alle sirene giù in strada. Ora ricordi che la tribù dei pusher portava abiti costosi firmati Nike e Fila. I chioschi la foraggiavano di panini con salsicce e peperoni, e lattine a due carte e cinque. Le autoradio suonavano musica araba, funk e techno. I lampioni inchiodavano i colori sulla strada. Più in alto si levavano le torri nere. Se ti addormentassi di nuovo, ora, vestito, abbrancicato alla ragazza e al plaid, vi svegliereste all’ora di pranzo, sudati e infastiditi. Consideri che l’allarme monotonico non è spiacevole. Lo assecondi.
L’autobus percorre veloce la strada all’alba. La città si appresta a ruotare con il resto del pianeta. Nella diga silenziosa si stanno aprendo varchi. Tra poco il formicolìo di passi e voci dilagherà tra le architetture. La ragazza siede sulle tue ginocchia. Ha occhi stanchi e rossi che si nascondono dietro i capelli fini. Dietro di lei il cielo s’illumina piano.
– Cosa guardi? – domanda.
Cose dell’anno scorso eppure belle
Questa recensione è andata in onda sull’Indice di novembre. Cagnanza e padronanza di Peppe Fiore, invece, è scaricabile gratuitamente qui, ed è molto, molto, molto bello.
I racconti di Peppe Fiore riescono spesso ad essere colmi allo stesso tempo di cinismo e d’amore, spietati e insieme empatici, sarcastici e partecipi. Un’alchimia sentimentale generata dalla fusione apparentemente dissonante e invece inaspettatamente armonica tra una scrittura fatta di precisione entusiasta, affettuosa nella descrizione dei protagonisti e – attraverso la loro voce – incantata dai loro corpi, dagli oggetti e dalle merci che li circondano e che di fatto blindano i loro mondi, e lo sconforto che emana dall’autoreferenzialità delle loro vite, dall’incomunicabilità che regna sovrana ovunque, dalla sostituzione dei soggetti con gli oggetti. In Cagnanza e padronanza, rispetto alla prima raccolta, Attesa di un figlio nella vita di un giovane padre, oggi (Coniglio 2005), le atmosfere scivolano di qualche metro dal pop colorato al grigiore impiegatizio o periferico: se alcuni racconti si svolgono ancora nel perimetro angusto del benessere fatto di bisogni indotti dal marketing (Frigidaire), tra le vite rette dai valori indiscussi dell’ideologia delle performance (Risvolti poco noti della carriera universitaria in Italia), altrove compaiono anche i confini di questo mondo: la bestialità appena sotto pelle di Amarsi troppo, quella che striscia accanto alla civiltà di Forme di vita su un pianeta, passando attraverso il paragone generazionale di Il mio ultimo purè, Pirinol e Intermezzo, spingendosi a cercare l’antecedente storico della società senza via d’uscita nel racconto che dà il titolo alla raccolta, dove svetta la figura emblematica di Mario Badalassi, studente politicizzato e saccente, figlio di un’Italia fino all’altro ieri miserabile e affamata, ferina e inurbata di peso. In quel passato si celano le radici della tragedia dei personaggi di Fiore, che è la loro incapacità di esplodere fuori dai mondi nei quali si sono rinchiusi, e che deriva dal non possedere nemmeno i vocaboli, le immagini, gli oggetti per dire la disperazione.
Maius quam cogitare potest – Seconda meditazione in novembre
L’assenso
Il punto è l’assenso, quello è lo scambio dei binari: quando la chiamata incontra l’assenso noi non smettiamo di esercitare le funzioni dell’anima, le funzioni che ci vogliono potenti, pensanti, desideranti: le esercitiamo illuminati dallo spirito. Questa poesia di Mandela Marianne Williamson, Our Deepest Fear, potrebbe far pensare il contrario, e cioè che ci si debba accettare sul puro piano dell’anima:
La nostra paura più profonda
non è di essere inadeguati.
La nostra paura più profonda,
è di essere potenti oltre ogni limite.
E’ la nostra luce, non la nostra ombra,
a spaventarci di più.
Ci domandiamo: "Chi sono io per essere brillante, pieno di talento, favoloso?"
In realtà chi sei tu per NON esserlo?
Siamo figli di Dio.
Il nostro giocare in piccolo,
non serve al mondo.
Non c’è nulla di illuminato
nello sminuire se stessi cosicchè gli altri
non si sentano insicuri intorno a noi.
Siamo tutti nati per risplendere,
come fanno i bambini.
Siamo nati per rendere manifesta
la gloria di Dio che è dentro di noi.
Non solo in alcuni di noi:
è in ognuno di noi.
E quando permettiamo alla nostra luce
di risplendere, inconsapevolmente diamo
agli altri la possibilità di fare lo stesso.
E quando ci liberiamo dalle nostre paure,
la nostra presenza
automaticamente libera gli altri.