La peste

Ecco le domande che abbiamo rivolto al fondatore delle Brigate Rosse.
Prima: la sua liberazione dal carcere fu una delle azioni più spettacolari degli anni di piombo. Mi sono convinto che in realtà Mara Cagol non l’ha liberata per amore, ma per violenza. Un po’ come successe a Cristo: quando venne arrestato nell’orto degli Ulivi, Pietro sguainò la spada…
Seconda: Stando a molti, le Br nacquero dall’incontro della sinistra oltranzista e dell’ala più radicale del cristianesimo militante. Voi volevate liberare i poveri, ma Gesù ha detto Beati i poveri perché di essi è il regno dei cieli. Se voi liberate i poveri, il regno dei cieli non verrà. Se i poveri diventano ricchi, diventano qualcosa di peggio, perché il loro guadagno è già in questo mondo. Il Male è necessario perché avvenga la redenzione. Se voi lo togliete a cosa serve dio? Bisogna che il Male rimanga tale, che non venga modificato; bisogna che la gente soffra, s’ammali, muoia, uccida e venga uccisa, proprio perché così è possibile che alla fine dei tempi dio si mostri.
Un bambino nasce e sembra normale, poi si scopre che ha una malformazione: è giusto che l’abbia, è normale che l’abbia, perché è segno che questa vita, la mia la sua quella di questo ipotetico bambino, non è per niente salva. Come possiamo amare qualcosa che è già salvo? Come possiamo amare qualcosa che non sia imperfetto, fragile e perduto? Si ama solo ciò che è male, solo ciò che è toccato dal male, nella speranza che l’amore redima e tolga. È una speranza, è vana e ci costringe ad amare qualcosa in continua agonia. Lei invece, ritornando all’esempio, vuole guarire effettivamente il bambino della sua deformità. Ma se il bambino è sano, è inutile amarlo.
Ecco, le domande sono senza risposta, perché Curcio non ha voluto rispondere. I padri, chiunque essi siano, non parlano. Sono le nostre sfingi e se ne vanno (chi inghiottito dalla massa, chi rifugiandosi nel bricolage da cantina) rigorosamente mute. Ma noi non faremo come Edipo. Lo liberiamo e ci liberiamo, qui e ora, di ogni accusa di colpevolezza nei confronti del padre e della madre. Rispondendo da soli alla domanda delle sfingi, abbiamo liberato la città. Nella città liberata si è prodotta la peste. E di questo, davvero, noi non abbiamo colpa.

Demetrio Paolin, Il mio nome è Legione

Non si esce vivi dall’underground

Non si esce vivi dall’underground

È uscito lo SpecialOne di Collettivomensa, a tema Non si esce vivi dall’underground. Sostiene Collettivomensa: “ben 80 paginone di racconti, fumetti, illustrazioni tutti lì a spaziare sull’esperienza degli autori nel traforo malsano dell’underground e poi proclami apocalittici, environment, ricette di cucina, accorgimenti sulla pesca all’aspetto e naturalmente un sacco di pulzelle nude”. Dentro ci trovate, tra tutte queste cose fighissime di autori e fumettisti e illustratori elencati qui, il mio racconto Dreadlock! (episodio pilota), e pure un inedito di Vanni. Per avere lo SpecialOne dovete venire a Ultra, dove lo SpecialOne sarà presentato il 23, oppure cercarlo in giro nelle librerie più fighe e sensate d’Italia, oppure scrivere a collettivomensa [at] yahoo.it.

Manufatti

Questa recensione è apparsa sul numero 7 di Satisfiction.

Wunderkind di D’Andrea G.L. fa molte cose e le fa bene: dà inizio a una trilogia dipingendo un mondo gotico e fantastico che ti si imprime nella mente, lasciandoti con la voglia di penetrarlo a fondo; di quel mondo ti fa letteralmente vedere le architetture, la terra, i cieli, i colori e persino il bianco e nero; ti fa sentire la pioggia che ti cola addosso, l’umidità che penetra le ossa; crea atmosfere dalla densità soffocante; descrive le paure e le angosce di un adolescente con la serietà e la considerazione riservate di consueto alle paure e alle angosce degli adulti senza trasformare l’adolescente in un adulto, ma anzi rivendicandone la specificità, lasciandolo libero di vivere il suo spleen che confina con l’orrore; solo che qui l’orrore irrompe nella realtà: l’autore lo prende sul serio, l’adolescente; stana l’essenza lugubre degli oggetti come solo gli incubi più disperati riescono a fare; radica l’incantesimo nella nostra forma di vita e, per ogni singola persona, in ciò che ha di più caro e intimo; concretizza fantasie oniriche terrificanti in immagini ad alta precisione; traduce in azioni e archetipi i sentimenti di amore coniugale, filiale, materno, talvolta li stressa; narra la violenza, e la fragilità nella violenza, con lingua eccellente.

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Indagine sulla rabbia

Da La futura classe dirigente, di Peppe Fiore:

La margherita della pizzeria L’Economica sfilaccia penosamente alla prima fetta. Francesca mi descrive l’ambiente di lavoro al Tempo, che è il giornale dove sta adesso. Mi immagino i suoi colleghi, me l’immagino benissimo, tutti romanacci nipoti di assessore, che passano la giornata a provarci di prammatica con lei in quanto stagista a cinquecento euro al mese. Mi incazzo, vorrei rovesciare il tavolo e fare una strage al napalm degli studenti fuorisede agli altri tavoli, per cambiare discorso le dico di Qua la zampa!, dell’intima sostanza televisiva contenuta nelle vaghe pupille dei bastardini abbandonati. Francesca dice che sarebbe una cosa carina, in fondo io mi sono sempre vantato di andare d’accordo più con le bestie che con gli esseri umani. Musica maestro: mi incazzo come una iena. Che ne sa lei di quello che significa lavorare sui format, i ritmi fordisti, l’intelligenza al servizio dello stereotipo, lo stress eccetera eccetera? Gianluca ha fatto La talpa e dopo tre mesi vedeva Paola Perego ovunque.

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Che si dia per scontato

Leiji Matsumoto, Arcadia

Non sembra più strano nulla, neppure il fatto che oramai chiunque assuma dosi poderose di ansiolitici, che l’insonnia sia per gli italiani il fattore numero uno di destabilizzazione nervosa, che le coppie non durino abbastanza da diventare famiglie – tanto che ormai nelle scuole italiane ci sono più alunni di origine straniera (e vivaiddio che ci sono almeno loro, sennò gli insegnanti se ne starebbero a casa) che di italiani – che in genere si registri un aumento esponenziale di reattività emotiva nella sfera affettiva, mentre la resilienza nella sfera lavorativa è oramai da considerarsi patologica.

[…]

Le radici della cultura italiana affondano nell’esclusione, nella pratica di consorteria, nell’infamia. La situazione attuale non si può considerare una cacciata implicita? Noi si resta qui, ma qualcuno ce l’ha chiesto forse? Arrivano segni tangibili per cui la nostra presenza di intellettuali che potrebbero contribuire in maniera efficace a svecchiare e migliorare questo Paese è effettivamente voluta da chi questo Paese lo governa? Per quanto mi riguarda il fatto che la presenza di molte menti eccellenti non venga, non dico notata, ma neppure a volte remunerata, e che si dia per scontato che un’intera generazione accetti di rimanere appesa al cappio di contratti capestro annichilendo il suo potenziale intellettuale, equivale ad una condanna in contumacia. Perché abbracciare con uno sguardo amoroso un organismo anaffettivo come quello che è diventato questo Paese? Quale investimento emotivo è quello che si chiede a chi può decidere di andarsene: rimanere in cambio di che?

Claudia Boscolo

Leggi il post intero su Scrittori precari.

Ossa rotte

Questa recensione è apparsa su Satisfiction 6.

Lotta armata, movimenti, infiltrazione di ieri e di oggi: dalle università degli anni Settanta alle nuove Brigate Rosse passando per il G8 di Genova, Guglielmo Pispisa – membro dell’ensemble narrativo Kai Zen, qui al terzo lavoro solista – racconta una storia più antropologica che politica, una storia alla quale la precisione della lingua, l’intensità dello stile e l’elaborata psicologia dei personaggi conferiscono la potenza per imporsi al lettore come l’emblema di un fenomeno collettivo. E il lettore ne esce con le ossa rotte. La terza metà ritrae un agire politico la cui caratteristica fondante – che ciò sia chiaro o no a chi agisce, e qualunque sia la fazione nella quale costui agisce – non sta nella concezione politica, ma in un estremismo originario e totalizzante, tanto che le parti di un agente dei servizi segreti, di un brigatista e di un rapinatore si possono scambiare come nel gioco delle tre carte, e l’orientamento si può perdere, delle contraddizioni ci si può addirittura compiacere e ci si può ubriacare di violenza su una strada che, una volta intrapresa, restituisce la possibilità della pietà e della poesia solo al termine del processo entropico, nello stagno dell’allucinazione. Sopravvive solo lo Stato, i cui scopi si sono perduti in spazi remoti, estranei a ogni patto sociale; uno Stato che ripresenta ai figli, oggi, le eredità indecifrabili dei padri, con tutto il carico di seconde e terze metà, pronte per una storia da ripetere perché incomprensibile, magari a parti invertite, magari all’inverso dell’inverso.

Nel blogroll trovate Kaizenology, il blog di Kai Zen.

NOI

Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Minimum Fax

Facciamo passare qualche giorno, aspettiamo che tutti si persuadano che l’emergenza è passata, che si è trattato di un paio di bravate e niente più. Poi, un giorno che la scuola è aperta anche al pomeriggio, appena l’ultima campanella suona e gli studenti escono, raggiungiamo la palestra interna, squarciamo con un coltello da cucina il rivestimento in similpelle del materasso che attutisce le cadute del salto in alto, estraiamo la gommapiuma compressa e la sparpagliamo in giro. Prima di darle fuoco, Volo scrive sul muro con un pennarello nero la data e l’ora, perché non ci siano equivoci, e poi il nostro messaggio:

BEATO CHI CI CREDE, NOI NO NON CI CREDIAMO

E più sotto, a mo’ di firma: NOI.

L’idea di usare un verso della sigla di Di nuovo tante scuse è stata del compagno Raggio. È la prosecuzione della logica dell’alfamuto, ovvero una rivisitazione in chiave politica della stupidità italiana, in questo caso le parole di una canzonetta. Ci piace pensare che chi leggerà non potrà non sentirsi dentro le voci di Raimondo Vianello e Sandra Mondaini. È una beffa, una cosa indecente. NOI, invece, è il nome della nostra microcellula virale. Coordinarci durante queste prime azioni di lotta – uno sulla soglia della porta a fare il palo comunicando tramite l’alfamuto un eventuale pericolo, la risposta silenziosa del compagno – ci ha insegnato che noi è la parola in cui coesistono la distruzione del soggetto individuale e l’orgoglio di essere compagni: per me che dico sempre io, che vivo chiuso nel raglio asinino, pensare noi è sbalorditivo. NOI è anche l’acronimo di Nucleo Osceno Italiano: nucleo identifica la solidità; osceno è l’unico tempo che abbia senso vivere; italiano è ciò che ci indigna e ciò in cui siamo immersi.

Giorgio Vasta, Il tempo materiale

Fare argine

Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Minimum Fax

La tua immaginazione produce disfacimento, aggiunge.
Non è vero.
Sì che è vero. Perché sei come me: cerchi la lotta.
Stiamo accanto e non ci guardiamo; lui nel nido, io vicino al cespuglio.
Sei attratto dalla distruzione, continua.
Non è vero, ripeto.
Allora perché non hai mai immaginato che dal tuo filo spinato potesse generarsi un’infezione buona?
L’infezione non può essere buona, dico subito.
Mentre se ne sta zitto, le piume scagliose che nel respiro gli si sollevano sul petto e si riabbassano, so che non ho ragione ma devo fare argine, prendere tempo.
Nimbo, mi dice passando a una tonalità più alta, ed è la prima volta che qualcuno mi chiama così. Tu sei venuto qui a cercare il sesso e la lotta, continua. Per te sesso e lotta sono l’unica infezione possibile, l’unica direzione nella quale muoversi.

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Enfasi

Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Minimum Fax

Dopo la quinta ora facciamo la strada insieme. Scarmiglia sta zitto, Bocca discute, io rispondo. Parliamo ancora dei comunicati, della loro lingua. Bocca ne è conquistato, gli piace l’enfasi, le loro frasi precise e feroci.
Lo ascolto, ci penso, mi rendo conto che se anche ne avverto la fascinazione nella loro lingua c’è qualcosa che qualcosa che mi mette in imbarazzo, una pena per il dogmatismo imparaticcio, per l’enfasi puerile. Eppure io per primo sono enfatico. Non posso non esserlo perché so, come lo sanno le Br, che l’enfasi è l’unico modo per accedere alla visione, alla profezia della storia. Certo, si diventa ridicoli, ma non ci sono alternative: tra l’ironia e il ridicolo scelgo il ridicolo.

Giorgio Vasta, Il tempo materiale

Contro l’ironia

Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Minimum Fax

In questa polaroid siamo tutti ironici. E a me l’ironia fa male. Anzi, la odio. Non solo io, anche Scarmiglia e Bocca. Perché ce n’è sempre di più, troppa, la nuova ironia italiana che brilla su tutti i musi, in tutte le frasi, che ogni giorno lotta contro l’ideologia, le divora la testa, e in pochi anni dell’ideologia non resterà più niente, l’ironia sarà la nostra unica risorsa e la nostra sconfitta, la nostra camicia di forza, e staremo tutti nella stessa accordatura ironico-cinica, nel disincanto, prevedendo perfettamente le modalità di innesco della battuta, la tempistica migliore, lo smorzamento improvviso che lascia declinare l’allusione, sempre partecipi e assenti, acutissimi e corrotti: rassegnati.

Giorgio Vasta, Il tempo materiale