Contro la barriera del cielo

Questa recensione è apparsa sull’Indice di gennaio.

È una rete, questo romanzo di Paolin, è l’intreccio dei ricordi del protagonista, Demetrio, dapprima giornalista incapace di rinunciare alle proprie velleità letterarie e infine addetto stampa d’un sindacato, strumento docile che s’affida alla mano altrui; Paolin percorre fili di memoria che si incrociano e formano nodi cruciali, lambisce il presente, accompagna Demetrio nel suo peregrinare mentale tra familiari e amici, tra forme di vita diverse e figure simboliche, talvolta incontrate realmente, come Renato Curcio, talvolta, come Mohamed Atta e la ragazza, immaginate e ricostruite nella loro psicologia.
Il titolo del libro identifica due poli: il nome e la legione, l’individuo e la moltitudine, Demetrio e il mondo. Così ogni polo racchiude in sé anche l’altro: Demetrio è tutte le persone che ama, che incontra, che immagina, che ha veduto, Demetrio è Legione, e la legione, la folla degli individui, è un individuo, un’unica sostanza, un dio che ha scelto di divenire carne, dissezione, possibilità d’errore biologico e morale. Creature che si compenetrano attraverso il sesso, la procreazione, l’alimentazione, il trapianto, ibridismi di corpi impazziti che deragliano da un campo morfico all’altro: Il mio nome è Legione racconta – ed è – un unico, traboccante dio di materia che si incontra e si scontra con se stesso, in se stesso, senza soluzione.

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Un filo sottile e adamantino lega ogni male nel Male

Qui sopra la copertina del volume scritto – vi si trovano capitoli lunghi quattro pagine sulle quali, infatti, sono distribuite financo venti righe di parole, in lettere di grosso formato – e firmato da Omar Fantini. Potete trovarlo sul banco della libreria, accanto alle agendine, ai libri di aforismi, alle crestomazie delle imprescindibili opinioni di comici, calciatori e ospiti fissi di talk-show sul mondo in cui viviamo e sulla vita in generale.
L’assenza, in copertina, del volto dell’autore impietrito nella smorfia demente di occhi e bocca a uovo, con una mano di taglio alla nuca che mimi il configgersi degli anni ’80 nella coppa del trentenne o, più tradizionalmente, semichiusa a becco sul cucuzzo, nell’antico segno della scimmia citrulla, testimonia chi e cosa la storia ritenga tuttora, e si spera per molto altro tempo ancora, più importante. Ma anche indica quanto possa il subdolo nostalgismo.

Cosa fa Omar Fantini (parte quarta)

Una domanda è emersa più volte, tra i commenti ai post di questa serie e le email ad essi relative che ho ricevuto: ma non si starà attribuendo un’intenzionalità che forse non c’è? Avevo già scritto nel primo post: no. Non si sta attribuendo un’intenzionalità, né la si sta escludendo. In entrambi i casi un tipo antropologico è in azione: non è necessario che l’agente abbia un disegno, il disegno è già dato nella pulsione a distruggere determinate realtà, a magnificarne altre. In entrambi i casi il risultato è che Colorado Cafè, come dice il mio amico Daniele, è il braccio armato del Bagaglino. Quello che Colorado Cafè fa, lo fa. Il che non dimostra che quello che fa abbia una parte fondamentale in un qualche disegno di soggiogamento di massa, può anche esserne un epifenomeno, la qual cosa non sarebbe comunque meno rivelatoria della cultura e delle condizioni psicologiche dominanti Ma visto che ci sono, faccio un’altra immaginazione. Qual è lo strumento di formazione, informazione e persuasione più importante della realtà italiana? Mi sembra ovvio che sia la televisione. Qual è stato il prodotto televisivo di più grande successo nella fascia ragazzi dalla fine degli anni ’70? Gli anime. La corsa agli anime da parte di ogni rete televisiva italiana lo dimostra a sufficienza. Dunque gli anime sono stati lo strumento di formazione, informazione e persuasione più importante di chi oggi ha su per giù tra i trenta e i quarant’anni. Questa è quella che mi pare una premessa vera.

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Cosa fa Omar Fantini (parte terza)

Per questo motivo la poesia è più filosofica e più seria della storia, perché la poesia si occupa piuttosto dell’universale, mentre la storia racconta i particolari.
Aristotele, Poetica

Naturalmente è cosa sana attribuire valore di verità a una descrizione scientifica – e quindi consensuale – della realtà e attribuire un minor valore di verità alle più eterogenee immaginazioni. Questo di per sé, tuttavia, non significa negare il valore dell’immaginazione, della metafora, dell’opera d’invenzione. Nel momento in cui invece mi si dice che una cosa è stupida (anzi: è da stupidi) nella misura in cui non è una descrizione scientifica della realtà, si fa proprio questo: si nega valore di verità e valore in generale a ciò che non ha valore di verità strettamente scientifica, si attribuisce all’immaginazione, alla metafora, all’opera d’invenzione un disvalore.
Qui non si tratta, è chiaro, di non saper decodificare i registri, di attendersi da Holly e Benji una partita che duri novanta minuti e un campo regolamentare, di rimanere disorientati e increduli. Qui si tratta, meramente, di delegittimare quell’immaginazione che va al di là del verosimile. I Gem Boy fanno questo: trascinano il fantastico sul terreno della realtà e dicono “Ma mica è vero”. Anche Omar Fantini fa questo quando parla di Holly e Benji.

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Cosa fa Omar Fantini (parte seconda)

Sui limiti generati da una cultura pop totalitaria si può e si deve discutere, e in merito a ciò rimando allo splendido L’assedio del presente di Claudio Giunta. Tuttavia la serialità ha prodotto opere notevoli. Per la maggior parte dei rappresentanti della mia generazione Goldrake è il più bel cartone di robottoni di tutti i tempi e Ken il guerriero è il più bel cartone di bastonate di tutti i tempi, ma solo per pochi, forse pochissimi, la saga di Mazinga (della quale Grendizer è capitolo) rappresenta una delle pietre miliari della contestazione del vecchio Giappone militarista da parte dei giovani disegnatori giapponesi attivi negli anni ’70, contestazione che metteva in gioco concetti come l’ecologia e in generale il rapporto con il pianeta e con gli altri popoli del pianeta, la bellezza e la tragedia della relazione uomo-macchina, la lunga elaborazione del lutto atomico, il dubbio su come comportarsi davanti alle manifestazioni del male, il diritto di proprietà sulla terra, il problema dell’ideologia, dell’inibizione del sentire, del fascismo. Solo per pochi Hokuto no Ken è un’opera sul sacrificio, sul fato e sulla capacità di affidarsi alla sua corrente, su come si genera la cattiveria umana, su cosa sia davvero un messia e cosa ci si aspetta che faccia e cosa invece fa davvero, su quella terza possibilità, che sta tra il non agire e l’agire lasciando che l’abitudine anestetizzi, e che consiste nell’agire continuando a sentire, su cosa manchi a un dominatore per essere la creatura più evoluta del mondo e sul fatto che ciò che manca è la rinuncia a essere un dominatore.

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Cosa fa Omar Fantini (parte prima)

“Come sono i tuoi coinquilini?”
“Boh… Tranquilli… Non so.”
“Di qualcosa parlerete!”
“Perché, noi di cosa parliamo? Iacopo, ti ricordi quando il Mella disse ‘certo, noi non si parla mai di nulla di serio, ma almeno neanche di calcio, marche o vestiti‘?”
“Magari aveva ragione, ma è diverso: tra noi è vero che non si parla granché dei cazzi nostri, delle cose importanti, però con le altre persone ci abbiamo sempre parlato. Mica siamo autistici. Via, di qualcosa parlerete!”
“Di cartoni animati.”
“Sono appassionati di anime?”
“No, no, non di quelli di ora… Parliamo di quelli vecchi, tipo Kenshiro, Yattaman, Georgie, Lamù, Fantaman, Arale, Paul & Mina…”
“Eh, vabbè, è come dire ‘ci parlo del tempo’… I vecchi cartoni animati giapponesi sono l’unica cultura condivisa della nostra generazione. […]”

Vanni Santoni, Gli interessi in comune

[Una volta in questo punto del post c’era un video ripreso da Colorado, una trasmissione Mediaset. Il video è stato poi cancellato da YouTube. Il protagonista era Omar Fantini, un comico il cui spettacolo consisteva sostanzialmente nel dire quanto sia fottuto nel cervello chi è cresciuto negli anni Ottanta, e questo a causa dei programmi tv cui si è sottoposto, programmi idioti la cui idiozia Fantini dimostrava con riferimenti stucchevoli alla polvere di Pollon e – immancabilmente – alla sessualità di Lady Oscar. Da qui in poi, questo post proseguirà come nella versione originale]

Il numero di atrocità interconnesse di cui si è reso responsabile Fantini può essere ragionevolmente considerato ostensione del filo sottile e adamantino che lega ogni male nel Male. Ciò che invece non è chiaro mai alle menti che non siano pregiudizialmente cospirazioniste o scettiche, ma che sono in ogni caso vittime d’overdose di rumore informativo, è se il singolo fenomeno sia il risultato di un disegno ordito da dominatori occulti o di un involontario stato generale dello spirito o di entrambi, e in caso secondo quale misura, suddiviso in quali parti e responsabilità, e se sono parti interne o parti esterne al fenomeno di volta in volta preso in esame, in questo caso, l’operare del singolo individuo. Se si tratti di trama o di riflesso è un dubbio che ormai, per chi vive in Italia, ricopre il ruolo che hanno  le domande tipo, in metafisica, se sia fondativa la materia o l’idealità o, in tema morale, se viga un rigido determinismo o il libero arbitrio. Domande fondamentali delle quali la risposta appare nondimeno imperscrutabile: noi, di fatto, oggi, sappiamo cosa fa Omar Fantini, ma non sappiamo chi è Omar Fantini, il che non gli risparmia un’analisi. Limitiamoci dunque a vedere cosa fa Omar Fantini:

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Poi arriva un giorno

«Poi arriva un giorno, che è un giorno più bello degli altri, Abramo si è alzato ed è felice, perché oggi il sole è splendente e sa che passerà un giorno intero con suo figlio. In quel giorno dio chiama Abramo e gli dice: “Se tu mi ami, devi sacrificarmi tuo figlio.” Abramo non guardò dio, che l’avrebbe ucciso. Decise che non c’era niente da fare, forse Isacco era nato per questo. Gli uomini un tempo erano così, non si chiedevano le cose. Abramo disse che Isacco possedeva qualcosa che lo faceva caro a dio e che dio voleva Isacco. Quindi partì con suo figlio per sacrificarlo. Tu sai cosa vuol dire sacrificarlo, Silvio?»
«Sì» disse Silvio, «lui voleva ucciderlo.»
«Però Abramo non voleva, è questo il centro del racconto. Abramo non voleva, si era svegliato felice, ad un tratto qualcosa accade e deve uccidere il proprio figlio…» Così nella vita felice di una famiglia, basta un pomeriggio e una scoperta, e cambia ogni cosa. Tutti si concentrano sul fatto che Abramo deve uccidere il figlio, ma l’importante è che dio gli chieda di ucciderlo. È lì il problema: dio chiede una cosa del genere. Il resto, che Abramo abbia ucciso o meno Isacco (poi non l’ha ucciso), non cambia il fatto che dio abbia deciso questo. Se dio è così, allora forse ha sbagliato qualcosa. Se decide che Abramo deve avere un figlio e poi sacrificarlo, significa che dio è confuso, che ha fatto qualcosa di sbagliato, qualcosa di male. E se l’errore è di dio, vuol dire che la nostra colpa non c’è. Questo non ci toglie il dolore, la vergogna, anzi l’aumenta; non ci toglie il male, che rimane. È possibile che nel concreto io faccia del male a qualcun altro? È possibile che non sia male di per sé, ma diventi male? È possibile che quello che io amo diventi male così male da avvelenarsi?

Demetrio Paolin, Il mio nome è Legione

Pensieri sui libri di Angelo Calvisi

Calvisi ha scritto una trilogia: Maledizione del sommo poeta, Il geometra sbagliato, Principe di Persia. Maledizione del sommo poeta cambia completamente se, dopo averlo letto, si legge Il geometra sbagliato e si ripensa il primo libro alla luce del secondo. Perché Maledizione del sommo poeta è un libro che lì per lì si prende a ridere: perché la figura del visionario, del rimastone, del tipo che si fa i viaggi, ottiene, come risposta automatica della cultura diffusa, il riso. Ma poi la lettura del Geometra sbagliato agisce retroattivamente sul lettore: ci si vergogna di aver riso. Perché ci si rende conto che in realtà non c’è alcuna differenza – nell’universo di Calvisi – tra la fenomenologia del rimastone e quella della persona affetta da disagio mentale, cambia solo lo schema culturale di riferimento, nel primo caso la reazione è il riso, nel secondo la tristezza e la compassione. È vero che, man mano che si cresce, i rimastoni fanno sempre meno ridere e mettono sempre più malinconia. Ma c’è qualcosa che rimane, anche solo a livello di consuetudine sociale, di aspettative altrui alla fine del racconto degli aneddoti del paesello, che si fatica sempre a eliminare del tutto. Ecco, forse bisogna pensarci. Perché poi tu leggi Maledizione del sommo poeta e pensi che insomma, è un libro, è fatto apposta, è fatto apposta perché tu rida, nessun matto è stato preso in giro per scrivere questo libro, niente di tutto ciò è successo. Allora ridi. E poi, quando leggi il secondo e capisci qual è il tema della trilogia, pensi: cacchio, non c’era niente ridere. E allora pensi a tutte le altre volte che non c’è niente da ridere, pensi che non c’è da ridere nemmeno per scherzo, nemmeno dell’idea platonica.

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Allo appetito delli uomini particulari

Federica Sgaggio ha scritto qui del servizio di Mattino 5 sul giudice Raimondo Mesiano; ha sgombrato il campo da una serie di etichette e interpretazioni fuorvianti che si erano appiccicate al caso e, così facendo, ha aperto uno spazio di chiarezza per la riflessione. Ne approfitto: oltre all’intimidazione di cui scrive Federica, mi pare che il servizio mostri qualcos’altro. Non qualcosa di nuovo in senso stretto, perché è qualcosa di coerente con un’ideologia già veduta, e già scontata, e già invisibile. Non sono nemmeno sicuro che si possa parlare di intento: è difficile stabilire se vi sia intenzione o sintomo, coscienza o incoscienza, ma in quel servizio non riesco a non vedere all’opera il tentativo di ridurre un ordine logico, ovvero un ordine universale – la legge -, all’individuo. E, necessariamente, il tentativo di ridurre un ordine universale equivale al tentativo di annientarlo.
Il servizio riduce la legge a un uomo in particolare, riduce la matematica a corpo, vizi, abitudini, colore dei calzetti. E mi pare che qui ci sia pure, implicita, un’identificazione tra persona umana e desiderio, quindi: riduzione della legge alla persona e riduzione della persona alle sue motivazioni personali. E dunque: riduzione della legge a motivazioni personali. Sei giudice, ma sei uomo, dunque chi sei tu per giudicare? La legge, sì, ma la legge non esiste, non c’è l’universale, non c’è l’ordine logico. E, dove non c’è ordine logico, non ci sono ragioni, e allora il più grosso non si deve toccare, lui è là e basta, e tu no. Sei invidioso?

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L’ultimo Gabibbo

Questa recensione è apparsa sull’Indice di ottobre.

Michele Botta ha ventisei anni, è compulsivo, nevrotico, particolarmente abile a trovare pretesti per andare in collera e a ingenerare limiti nella pazienza apparentemente illimitata della sua fidanzata; coltiva un’evidente propensione all’alcolismo, è ossessionato dai manifesti giganti del naufragando Veltroni, assuefatto alla pornografia on-line, torturato da un reflusso gastroesofageo, perseguitato da una pretendente fasciofuturista. Soprattutto Michele è stato assunto da una società di produzione televisiva, e mentre lavora al format di Qua la zampa!, un delirante reality sui cani, l’occasione della svolta gli si presenta nella forma di una fiction milionaria su un patriarca del porno. La futura classe dirigente racconta il tentativo di Michele di tenere insieme tutti i pezzi di sé al cospetto della fortunata circostanza.

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