Luca Ricci, La persecuzione del rigorista

Luca Ricci, La persecuzione del rigorista, Einaudi

Il giovane sacerdote di buona famiglia e salde ambizioni, inviato a trascorrere un breve periodo in un paese di montagna, è quanto di più lontano si possa immaginare dallo stereotipo del prete: uomo di mondo in ogni senso, completamente privo di dimensione spirituale, incarna una sorta di nobiltà decadente che si esprime nell’esercizio, sovente fine a se stesso, della capacità di imporsi, di negoziare, di esercitare pressioni ai limiti dell’estorsione; attorno a lui gli esponenti dell’altra parte dell’umanità partecipano all’azione nel ruolo di consapevoli pedine, cercando di guadagnarci ognuno il suo misero tornaconto. Del resto, questa è l’unica differenza sostanziale tra due forme di vita che si legittimano vicendevolmente, un dislivello minuscolo, tutto sommato, tra persone che sono tutte ugualmente colpevoli, in un mondo dove l’unica pietas sembra consistere nel riconoscere al prossimo – prete o contadino, donna o uomo che sia – il diritto a inseguire la sua personale meschinità, oltre la quale pare non esserci nulla che valga la pena di essere ricercato. Ciò che più sconforta e disorienta in questo libro è che non si nega la possibilità e il valore dell’innocenza, del bene, di un atto disinteressato, perché non ve n’è alcun bisogno: sono cose al di là dell’orizzonte e delle aspettative di chiunque, caso mai è la loro esistenza a dover essere dimostrata in un mondo dove la bassezza è il fondamento sostanziale di ogni elemento. Il protagonista è il signore di questa realtà: il suo mestiere sembra esser stato scelto perché un abito bisognerà pure indossarlo, la sua qualità è essere più bravo degli altri nello strappare risultati, il suo piacere è costringere il prossimo all’obbedienza, dedicarsi a una passione fredda, “il gusto d’incedere impettiti”; persino Dio, nella sua immaginazione, è solo l’ennesimo vecchio, non diverso da quelli che affollano le chiese, da sopportare con fastidio per ottenere qualcosa. Il suo unico motivo di frustrazione, la più temibile contestazione al suo mondo, è il contadino che non sa giocare a calcio, in nessun ruolo, e che tuttavia, sferrando dozzinali rigori rasoterra, segna sistematicamente; una grazia portata senza coscienza, un talento del tutto inutile, irragionevole, una manifestazione di gratuità che insopportabilmente pretende di esistere.

Questa recensione comparve sull’Indice del maggio 2008, ma non fu mai pubblicata su New-Clear Wordz.

Corpo morto e corpo vivo / Urbino e Pesaro

Giovedì 18 marzo alle ore 17.30, a Urbino presso la Libreria La Goliardica in Piazza Rinascimento 7, Giulio Mozzi e Demetrio Paolin presentano il libro Corpo morto e corpo vivo. Eluana Englaro e Silvio Berlusconi, di Giulio Mozzi, con una nota di Demetrio Paolin. Con gli autori saranno presenti: Claudio Girometti, Simone Massa, Jacopo Nacci. L’incontro è a cura della Libreria La Goliardica.


Venerdì 19 marzo alle ore 18.00, a Pesaro
presso la Biblioteca “Bobbato” in Galleria dei Fonditori 64, (Ipercoop, 1° piano), Giulio Mozzi e Demetrio Paolin presentano il libro Corpo morto e corpo vivo. Eluana Englaro e Silvio Berlusconi, di Giulio Mozzi, con una nota di Demetrio Paolin. Con gli autori saranno presenti: Claudio Girometti, Simone Massa, Jacopo Nacci. L’incontro è a cura della Libreria Pesaro Libri.

Francesca Bonafini, Mangiacuore

Francesca Bonafini, Mangiacuore, Fernandel

La ragazza del nord è colta, curiosa, è politicamente attiva, fa volontariato. E in una comunità di recupero, a Milano, conosce Alfredo, eroinomane romano in via di disintossicazione. Tra i due, apparentemente cosi diversi, sboccia l’amore. Per Alfredo liberarsi dal ruolo che si è ritagliato e in cui si trova ormai imprigionato è l’unico modo di salvarsi la vita. Con spirito di abnegazione l’una e riluttanza l’altro, i due si immergono in quel caos di insicurezza e paura che spesso si cela dietro alle maschere che indossiamo per sopravvivere a noi stessi e al mondo. La ragazza del nord non potrà sottrarsi alla resa dei conti con il suo lato oscuro. Il romanzo è narrato con due voci parallele che nel corso della storia si contaminano l’un l’altra: l’ottimismo straripante della ragazza del nord sembra contagiare, in una certa misura, anche la voce ora laconica ora rabbiosa di Alfredo; a sua volta l’incapacità d’agire di Alfredo si riflette sulla voce della protagonista. La contaminazione dei toni è dunque specchio della direzione in cui di volta in volta si muove il reciproco contagio emotivo. Il linguaggio è inteso ora come chiave per scoprire il senso della vita, ora come possibilità di invenzione, menzogna, barriera di superficialità eretta a suon di “ti amo” e “sto bene” per difendersi dal caos interiore che non si vuole esplorare, o ancora insulto che chiude ogni porta al dialogo donando un’arrogante sensazione di potenza. Emerge la disperata compresenza di incapacità di stare soli e impossibilità di dare fiducia, viene alla luce il male naturale e contagioso di un mondo teso tra menzogna e dolore. E il dolore è talmente intenso che le parole superficiali smettono di essere un male, e diventano una agognata sostanza con la quale narcotizzarsi.

Questa recensione comparve sull’Indice del maggio 2008, ma non fu mai pubblicata su New-Clear Wordz.

Il sole esausto – Casshern Sins

Il caso di Kyashan è notevole. Se si dimentica, e non è difficile, la rivisitazione del 1993 – il legnosissimo Casshān (Kyashan il mito) – ciò che è accaduto negli ultimi anni al classico della Tatsunoko è eccezionale: nel film La Rinascita di Kazuaki Kiriya e nell’anime Casshern Sins di Mad House, Kyashan diviene di volta in volta il personaggio concettuale dell’autore, un soggetto privilegiato di riflessioni morali, antropologiche, teologiche. Kazuaky Kiriya si scontrava frontalmente con la serie classica, faceva di Kyashan, della sua storia e dei suoi comprimari gli speculari opposti del Kyashan, della storia e dei comprimari della serie classica, e così facendo esprimeva il suo dissenso rispetto alla visione del mondo sottesa alla storia originale; con Casshern Sins siamo apertamente al metadiscorso: Casshern, Friender, Luna e Braiking (mai così meravigliosamente mussoliniano) vivono la vita dei simboli, sono personaggi-concetto ai quali si riferiscono i personaggi-attori che si muovono nel mondo attorno a loro. Dunque, sia nel caso del film sia nel caso della nuova serie, non siamo di fronte a un sequel, ma a un uso libero di figure mitologiche entrate a far parte del patrimonio collettivo, le quali, comunque, funzionano concettualmente al massimo dell’energia solo se ricordate nelle loro incarnazioni precedenti.

Casshern Sins: da quando Casshern ha ucciso Luna (primo stordimento dello spettatore), nel mondo è comparsa la Distruzione, ovvero un processo di deterioramento la cui natura sta a metà tra il fisico e il metafisico. Come effetto dell’avvento della Distruzione è mutata la psicologia dei robot, i quali, prima virtualmente immortali e ora morituri, si considerano vivi, e naturalmente non vogliono morire, il che si risolve in una compulsiva caccia ai robot più deboli, cioè ai pezzi di ricambio, da parte dei robot più attrezzati alla guerra. Ma non è cambiata solo la loro psicologia: i robot, in modo inquietante, cominciano a disgregarsi quando perdono fiducia, convinzione. E appena muoiono, esalando l’ultimo soffio di coscienza, ecco che si polverizzano.

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Federico Platania, Il primo sangue

Federico Platania, Il primo sangue, Fernandel

Andrea vive con i suoi genitori in una casa minuscola e lavora in una mensa tirando su novecento euro al mese. Trascorre la sua vita in una periferia romana infestata dalla miseria, dal risentimento, dalla follia. I cittadini di questo mondo sono i poveri, i barboni, gli immigrati e, odiati da tutti, gli zingari, sui quali piovono pletore di maledizioni in odore di nazismo; ma in questo mondo grigio si incontrano anche sciamani in tuta da lavoro, sentinelle del caos in mimetica, manager senza scarpe: personificazioni del degrado economico e mentale che spesso camminano sul confine tra realtà e allucinazione. Sulla strada che Andrea percorre per andare e tornare dal lavoro compare un giorno il cane nero senza nome, bestia splendida e terribile, quasi metafisica. Il padrone del cane, Francesco, figlio di un ricchissimo industriale milanese, si è recato a Roma per vendere una villa del padre. Apparentemente distanti, Andrea e Francesco vivono entrambi come davanti a una vetrina piena con la porta sbarrata; le loro sono due esistenze cicliche: l’incubo non è la precarietà del lavoro, bensì la schiavitù a un eterno presente, che ha il volto della miseria per Andrea e dell’impenetrabile cassaforte paterna per Francesco, e la minaccia, connaturata a ogni esistenza, della caduta improvvisa nell’abisso. La conclusione cui entrambi giungono è “O la follia o la violenza”, o stare male o fare il male. Le convenzioni e le morali sono resistenti, ma non inespugnabili, e mostrano il fianco proprio quando il reale appare con il volto arrogante dell’immobilità. La lingua di Platania è perfetta, scorre e trascina, i capitoli sono tranciati da lampi di introspezione secca e disperata. Come il quartiere di Andrea, il libro ringhia paura e rabbia. Un senso di oppressione fisico e verbale che è pronto a esplodere da un momento all’altro.

Questa recensione comparve sull’Indice del maggio 2008, ma non fu mai pubblicata su New-Clear Wordz.

AAVV, Viva Las Vegas

La casa editrice Las Vegas celebra la propria nascita con questa brillante antologia di racconti: quindici storie delle quali una tira l’altra come le ciliegie del logo, e nessuna lascia che il livello cada; anche perché, va detto, gli autori (distanti per temi e stili) sono giovani ma non dilettanti: tutti hanno alle spalle esperienze di una certa consistenza, e pressoché tutti si muovono con confidenza e perizia, senza tenere necessariamente fede al giovanilismo della bandella – “Las Vegas cerca storie giovani, ironiche, rock, romantiche, glamour” –, ma anche evitando i vittimismi più facili e diffusi del nostro tempo e del nostro spazio. Impossibile rendere conto di tutti i motivi di interesse: segnaliamo Via Paolo Sarpi di Gianluca Mercadante, una storia ambientata durante la rivolta cinese a Milano, un racconto intenso che non teme la complessità del reale; Io e Palmieri di Giuseppe Bottero, nel quale la sfida definitiva di un campione delle performance estreme sul viale del tramonto è narrata con spessore esistenziale dal fedele assistente; Selvaggina di Marco Candida, la registrazione del flusso cerebrale e ossessivo generato dal protagonista, appostato con fucile spianato alla finestra di casa; Silenzio di Elisa Genghini, dove una cena tra amiche punteggiata di flashback lascia spazio a un’insolita conclusione: un racconto dallo stile e dal ritmo raffinati; r.e.s.p.e.c.t. di Christian Mascheroni, una storia dolorosa dall’immaginario forte: protagonista la fauna di comparse e quasi-attori che ruota attorno a Las Vegas (Usa); Ho letto di te (una lettera) di Ivano Bariani, caustica invettiva rivolta da un impiegato dell’anagrafe a uno scrittore; e il delicatissimo 386 ore prima di Carlo Melina, un autore che per consapevolezza stilistica e autonomia intellettuale varrà la pena di seguire.

Questa recensione comparve sull’Indice dell’aprile 2008, ma non fu mai pubblicata su New-Clear Wordz.

Marco Candida, Il diario dei sogni

 Questa recensione è apparsa sull’Indice dell’aprile 2008.

Marco Candida, Il diario dei sogni

Verino Lunari, disoccupato e scrittore emergente, tiene un registro dei sogni provocatigli dal Cipralex, il medicinale con il quale cura i suoi attacchi di panico. Spesso, come episodi di una storia, i sogni di Verino compongono una narrazione parallela alla vita: nella paranoia del tradimento da parte degli amici, attività onirica e veglia si respingono, si rincorrono e si travolgono l’un l’altra. Altre volte sogno e realtà intrattengono rapporti di apparente contrapposizione: mentre Verino analizza se stesso e gli altri riducendo quasi ogni essere umano a cosa, nel suo sogno ogni oggetto respira. C’è poi il sogno che è pura invenzione, lampo della mente, ipotesi visionaria: donne che si nutrono dalle ascelle, letture del pensiero frammentarie, fantasmi che vogliono infestare una casa ma sbagliano indirizzo. Il romanzo è appassionante, la scrittura di Candida non ha mai flessioni. La narrazione su due piani richiama il bell’esordio, La mania per l’alfabeto (Sironi, 2007), e anche nel Diario dei sogni torna il rimando all’aforisma 84 della Gaia scienza sull’apparente inutilità della poesia: poesia e necessità, condizione dello scrittore e condizione del lavoratore ordinario si ritagliano ognuna un proprio mondo, e sono mondi con scale di valori inverse.

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Solero

Avatar
James Cameron, Avatar, 2009

Non si tratta di accusare di new age qualsiasi opera che non aderisca a un rigoroso materialismo e non si tratta di snobismo nei confronti del pop. Si tratta, più onestamente, di riconoscere la new age e un cattivo uso del pop là dove si manifestano.
Avatar. Partiamo dal dato più visibile in questo senso: i Na’vi sono terribilmente anni novanta, sono la versione in computer grafica di una brutta copia disneyana di un anime molto scarso, sembrano disegnati da un tizio che fa i cartoni animati a sei euro l’ora per la pubblicità di un gelato. È un’estetica ormai talmente diffusa – il muso piatto a leoncino, gli occhioni – che è difficile anche ricomporne le radici, ma fin da subito appare meravigliosamente mainstream. Ed è una parte coerente col tutto.

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Le stesse

Mi chiedo se c’è una differenza tra quelli che il giorno in cui Eluana spirò scelsero di guardare Grande Fratello e quelli che invece stavano davanti alla clinica a litigare, oppure stavano su Facebook a compilare status pro o contro questa povera ra­gazza e il suo corpo conteso. A corollario di questo è bene aggiungere che le persone, che si giocavano a colpi di veglie, preghiere, note internet il corpo appena morto di Eluana, erano le stesse che qualche settimana prima non potevano trattenere lo sdegno sui morti di Gaza, oppure discutevano della leadership all’interno del pd. Non esiste nessuna differenza tra questi e coloro che hanno guardato Grande Fratello. Entrambi vivono la logica del sentimento istantaneo: s’indignano a comando, si commuovono per qualcosa che li tocca superficialmente. C’è una totale indeterminatezza morale che mi pare figlia del dolore spettacolarizzato, dove ogni sentimento viene metabolizzato ed espulso nel giro di poco. Io non ho prove per sostenere quello che dico, tanto che qualsiasi persona potrebbe rispon­dermi che ha vissuto la vicenda Eluana come una tragedia.

da Il corpo e il rito. Appunti su Eluana Englaro, di Demetrio Paolin,
in Corpo morto e corpo vivo. Eluana Englaro e Silvio Berlusconi,
di Giulio Mozzi, Transeuropa 2009

Pensieri su un romanzo di Daniele Pasquini

Io volevo Ringo Starr è un romanzo scritto da Daniele Pasquini e pubblicato da Intermezzi. Daniele Pasquini ha poco più di vent’anni (qui il suo blog). Il romanzo ha per protagonisti dei ventenni.

[Quando c’avevo vent’anni i discorsi per generazioni mi stavano sulle palle, soprattutto perché non mi sentivo assolutamente rappresentativo della mia generazione, anzi. Poi un giorno uno più vecchio e intelligente di me mi disse che, passato qualche anno, i discorsi sulle generazioni li avrei capiti e ne avrei fatti io stesso. Qualche anno è passato e non so se capisco i discorsi sulle generazioni, però mi viene da farne.]

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