Su questa pagina di YouTube, la playlist dei sei video tratti dalla presentazione dell’Avvocato G, a Pesaro, con Federica Sgaggio.
Qui il post di Federica Sgaggio sui video.
Su questa pagina di YouTube, la playlist dei sei video tratti dalla presentazione dell’Avvocato G, a Pesaro, con Federica Sgaggio.
Qui il post di Federica Sgaggio sui video.
Essere berlusconiani non è avere in tasca la tessera del PDL. È la riduzione del linguaggio a superficie, e poi la sua stratificazione a oltranza; è ridere, nel linguaggio, dei corpi mercificati.
Essere antiberlusconiani non è andare al noBday, guardare Vieni via con me. Essere antiberlusconiani è rendere ragione e sentimento, è pretendere il riconoscimento della realtà logica e assiologica.
Sabato 11 dicembre, alle 18.oo, presso il circolo l’Otto, parlerò con Federica Sgaggio del suo nuovo romanzo, L’avvocato G. C’è un’immagine che mi viene in mente quando leggo i romanzi di Federica Sgaggio, un’immagine in movimento. I personaggi di Federica Sgaggio sono mostri, e nel contempo sono davvero persone, cioè: Federica Sgaggio descrive dei mostri, e io, dai tratti che descrive, mi rendo conto che quei mostri sono persone, hanno facce e corpi da persone, vivono in un mondo di persone, e di conseguenza mi rendo conto che le persone sono mostri. Con mostri non sottintendo alcuna connotazione morale, penso al senso biologico del termine. Non voglio dire che Federica Sgaggio scriva romanzi di mostri: in realtà scrive romanzi realistici, e i suoi protagonisti sono persone.
Il saggio di Roberta De Monticelli, La questione morale, ha il merito non irrilevante di offrire una ricognizione sui costumi di casa nostra – si parte da Guicciardini, si passa per Leopardi, si arriva a Corona e Ratzinger, a Bobbio e Zagrebelsky – portandone alla luce i presupposti filosofici, psicologici, culturali e politici, per porli all’attenzione di un lettore non necessariamente specializzato in filosofia e che però sia interessato, appunto, alla questione morale; l’operazione riesce, anche grazie al sostegno di una struttura semplice e chiara, in tre parti: “Male nostrum”, “Lo scetticismo etico” e “Tornare a respirare”, ovvero le radici del male, un falso rimedio che è parte del problema, e il rimedio reale.
Questo libro è soprattutto un gesto: da queste parti, infatti, non è per nulla scontato che la politica abbia qualcosa a che fare con la morale, e nemmeno che la morale possa essere oggetto di una riflessione in ambito morale. Si percepisce l’urgenza di estendere al di là delle pareti dell’accademia la discussione su temi che sì, sono tipicamente demonticelliani (assiologia fenomenologica, relativismo, nichilismo, decisionismo), ma che altresì rappresentano una strumentazione necessaria qualora si voglia realmente comprendere la nostra vita sociale e politica*; perché tanto si dice, di tanto si parla, ma ciò che sembra sempre sistematicamente fuori dal discorso sono le connessioni concettuali che il discorso implica, e il vocabolario necessario a dirimerle.
Di solito, quando segnalo un post, o un articolo o, come in questo caso, un commento, ne prendo un brano particolarmente rappresentativo o che mi ha particolarmente colpito, lo riporto su Yattaran e metto il link al pezzo integrale.
Di questa risposta di Roberta De Monticelli all’articolo che Marcello Veneziani ha dedicato, sul “Giornale”, all’ultimo libro di De Monticelli, La questione morale, non ho saputo quale parte scegliere.
Mad Max
Città in Comune, la lista civica di sinistra che si presentò alle ultime amministrative come alternativa seria al PD, tappezzò la città con manifesti che invitavano a votarla “perchè la cultura non è un rinfresco”, sbagliando l’accento del perché. Chi controlla i controllori? Posso credere in qualcuno che mi parla dell’importanza della “cultura” e che nel contempo con ciò che chiama “cultura” non ha familiarità? Lo scenario è oltre la sfera del tuono: a parte pochi solidi luminari, attorno a me e dentro me vedo poca familiarità con la “cultura” e un elettore che riempie la rete di commenti sgrammaticati nei quali denuncia l’ignoranza dei leader leghisti, cioè un elettore che sta dicendo «io (per diversi casi della vita) non sono “colto”, ma pretendo che lo sia chi mi governa», mi sembra un elettore saggio. Allo stesso modo, anche senza sapere nulla di medicina, pretendiamo che chi ci cura abbia una laurea. Si potrebbe obiettare che nemmeno un politico deve per forza essere colto: ricopre un incarico che non è direttamente coinvolto con la “cultura”; oppure: è coerente con la linea anticulturale del suo partito. Ma un politico, un intero staff, che volesse difendere la “cultura”, che ponesse la difesa della “cultura” nel suo programma, potrebbe permettersi di non avere familiarità con la “cultura”?
– Ciao Nicola, come stai?
– Ciao Babbo. Diciamo bene.
– Ho visto alla televisione la protesta dell’Università. Tu non sei sul tetto?
– Fa conto che ci sia. Dipendesse solo da me sarei salito anche sul Quirinale.
– Ma la Gelmini diceva che la sua legge è a favore del merito, contro i baroni, per la qualità. Mi sembrano cose giuste. Non è quello che hai sempre detto anche tu?
– Sì babbo, è quello che ho sempre detto anche io.
– E allora cosa state sempre a protestare?
– Fammi spiegare Babbo. Iniziamo da questo. La Gelmini ha detto che ha aumentato i soldi per l’Università, vero?
– Proprio così.
– Ecco. Se io ti tolgo 1000 euro e poi dopo dieci mesi te ne ridò 800 tu sei più ricco o più povero? Lo chiameresti un aumento o un taglio?
– Ha fatto questo?
Si è parlato di due atteggiamenti diffusi, manifestazioni di un unico pensiero: se questa cosa, la “cultura”, (-A) non ha regole, non ha logica, non ha complessità (e non preclude l’autoproclamazione attraverso il sostantivo magico: io sono un artista! io sono uno scrittore! io sono un poeta! io sono un filosofo!), e (-B) è astratta, vale niente più del suono delle parole che enuncia e sta, come si dice, cagata, allora è una cosa bellissima e tutti la onoriamo. Ma se la “cultura” non solo (A) rivendica la sua complessità (escludendo dal novero degli artisti, degli scrittori, dei poeti, dei filosofi chi desidera liberamente annettervisi), ma pretende anche di (B) dire la sua nelle questioni reali, davvero importanti, quotidiane, pratiche, ecco che chi (ha deciso che) non ha i mezzi per accedere alla complessità, e se ne sente escluso, nega rilevanza pratica alla “cultura”, perché ciò significherebbe ammettere che in lui o in lei manca qualcosa di rilevante (in alternativa c’è chi vede nella “cultura” una devianza, e negli “intellettuali”, cioè nei pervertiti, i fautori di un oscuro complotto ordito per sostituire la “cultura” alla normalità).*
Da I padroni del discorso, di Maria Chiara Pievatolo:
«Socrate scende al porto di Atene, il Pireo, in una occasione festiva. Vorrebbe tornare in città, ma viene trattenuto a casa di Polemarco, membro di una ricca famiglia di industriali meteci, che gli prospetta non solo le attrattive della festa notturna, ma anche che là “synesòmetha te pollòis ton neon […] kai dialexòmetha“. (Resp. 328a) Queste parole, oltre al loro significato ordinario, “staremo insieme a molti giovani e discorreremo”, hanno anche un senso peculiarmente platonico: la synousìa è la partecipazione ad una comunità di conoscenza e di educazione, e il dialégesthai designa la “conversazione” filosofica propria della dialettica. Polemarco, un imprenditore straniero che non gode di diritti politici in città, è, paradigmaticamente, un homo oeconomicus. Eppure, egli cerca qualcosa di più, forse solo come un passatempo: ma non la cerca sul mercato, a pagamento, bensì, gratuitamente, nella synousìa e nel dialégesthai – accettando addirittura il rischio di fare una brutta figura e venire umiliato, come può succedere quando si ha a che fare con Socrate. Come nel Menone, la condivisione della conoscenza reca in sé una possibilità di emancipazione.
La schizofrenia è esattamente, precisamente, modello dei rapporti di lavoro che ci interessano. La schizofrenia è il sostituto psicotico del conflitto di classe. Lavoratori dipendenti e autonomi, partite iva e contratti atipici, dottorandi e docenti precari, stagiste di un’organizzazione di eventi che non sanno se si stanno innamorando quando parlano con qualcuno o se questo contatto gli sarà utile per il prossimo vernissage e far bella figura con il capo, trentenni depressi e sessantenni che continuano a finanziare la vita dei figli sperando che un giorno questi li ricompenseranno. La distanza tra chi sfrutta e chi è sfruttato passa tutta per un conflitto interiore. E a lungo andare questa scissione – che non diventa mai dialettica – crea una sorta di abituazione, una cronicizzazione del disagio. Ossia: un dispositivo clinico per cui veramente penso possibile, normale, permanere in una situazione paradossale come quella di un quarantenne che vive da adolescente, o come quella di una ragazza che non capisce se l’innamoramento che sta cominciando a provare le potrà tornare utile per il suo lavoro di ufficio stampa. Un malessere sociale a cui, invece di riconoscerlo come coscienza di classe narcotizzata, diamo alle volte il nome di bipolarismo; in una specie di medicalizzazione della tensione politica.
Leggi Introiezione del conflitto di Christian Raimo su minima et moralia.