Dimanche

La posterità dell’Adamo terreno fu numerosa e completò (la terra); produsse in se stessa tutte le conoscenze dell’Adamo psichico. Ma (quanto) al tutto era nell’ignoranza.
Allora io proseguo: quando gli arconti videro che egli e quella che era con lui vagavano nell’ignoranza, come gli animali, se ne rallegrarono molto. Ma allorché capirono che l’uomo immortale non solo non li avrebbe trascurati, ma che essi avrebbero temuto anche colei che si era fatta albero, rimasero costernati; dissero: «Non sarà costui il vero uomo che ci ha accecato e ci ha fatto conoscere quella che fu contaminata e gli assomigliava, per poterci vincere?». Tennero allora consiglio i sette (arconti). Andarono timorosi da Adamo ed Eva; dissero a lui: «Tutti gli alberi che si trovano nel paradiso sono stati creati per voi, mangiatene i frutti ma guardatevi dall’albero della gnosi; non mangiatene. Se ne mangerete, morirete». Instillata loro una grande paura, se ne ritornarono alle loro potenze.
Venne, allora, colui che è più saggio di tutti loro, chiamato «la bestia». E quando vide l’immagine della loro madre Eva, disse a lei: – Che cos’è che vi ha detto dio: non mangiate dell’albero della gnosi? -. Lei rispose: «Ha detto: Non solo “non mangiatene”, ma: non toccatelo, affinché non moriate». Egli disse loro: Non abbiate paura! Non morirete. Sappiate infatti che se ne mangerete la vostra intelligenza si desterà e sarete come gli dèi, poiché conoscerete la differenza che c’è tra gli uomini buoni e i cattivi. Essendo invidioso, vi ha detto questo affinché non ne mangiate.
Eva ebbe fiducia nelle parole dell’istruttore. Guardò l’albero, vide che era bello, alto e lo desiderò; prese del suo frutto, mangiò, ne diede pure a suo marito, il quale ne mangiò. La loro intelligenza allora si aprì. Infatti, dopo che ne ebbero mangiato, la luce della gnosi li illuminò. Allorché si vestirono di vergogna, si accorsero di essere nudi e si innamorarono l’uno dell’altra. Quando videro quelli che li avevano plasmati, ne ebbero disgusto, perché avevano forma di animali; essi impararono molte cose.

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Alla pari con se stessi

Theodor W. Adorno

Pianta di serra. Si parla spesso di precoci e di tardivi, quasi sempre con un segreto augurio di morte per i primi; ma il discorso non regge. Chi matura presto, vive nell’anticipazione. La sua esperienza è aprioristica, una sensibilità che è presentimento, e saggia in immagini e parole ciò che solo più tardi sarà corrisposto in cose ed uomini. Questa anticipazione, saziata per così dire in se stessa, allontana dal mondo esterno e presta facilmente al rapporto con quest’ultimo un carattere nevrotico e infantile. Se il prematuro è qualcosa di più che il possessore di alcune abilità, è costretto in seguito a mettersi alla pari con se stesso: un obbligo volentieri presentato dai normali come un dovere morale. Egli deve conquistare faticosamente, al rapporto con gli oggetti, lo spazio che è stato occupato dalla sua rappresentazione: e deve apprendere perfino a soffrire. Il contatto col non-io, che, nei cosiddetti tardivi, non è mai disturbato dall’interno, diventa un bisogno per il precoce.

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Uno scambio di vedute con Roberta De Monticelli

Ieri ho avuto un breve scambio via email con Roberta De Monticelli, dopo aver letto, su Facebook, la sua lettera aperta a Concita De Gregorio, scambio che abbiamo deciso di rendere pubblico: trovate tutto qui sotto.
Un grazie alla professoressa per la disponibilità e la gentilezza, e a Matteo Pascoletti per la segnalazione della nota su Facebook.

Di seguito in questo post:

la lettera di Roberta De Monticelli a Concita De Gregorio
la mia lettera a Roberta De Monticelli
la risposta di Roberta De Monticelli

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Facce ride

[…] Uno scrittore che è intervenuto anche nel commentarium, e che è uno dei migliori autori di fantastico italiani, ha chiuso il blog, cancellando tutti i post. E’ GL D’Andrea. E’ stato costretto a farlo da un’ignobile campagna di annichilimento dell’avversario durata mesi, e ancora perdurante. Stesso sistema di certe trasmissioni televisive: con la scusante della satira, aggressione e infamia (fino alla creazione di pagine Internet razziste e omofobe) […]

Così scrive oggi Loredana Lipperini in merito alla chiusura del blog di D’Andrea GL e alle motivazioni che hanno spinto l’autore a prendere questa decisione.
Andando di link in link ho notato che si discute molto, e in generale, del problema del passaggio indebito dalla critica sarcastica dell’opera al sarcasmo sulla persona dell’autore.
Ma, mi domando, il problema sta davvero nell’oltrepassamento della linea di confine che separa la critica sarcastica dell’opera dal sarcasmo sulla persona dell’autore? Oppure si situa già al di qua di quel confine, in qualcosa che ha a che vedere con la critica in sé, o con la non-critica in sé, o con l’ironia o con il sarcasmo o con il dileggio, in qualcosa che riguarda gli equilibri tra ironia e critica, e la differenza tra ironia e sfottò, e la differenza tra critica e sfottò?
Perché io, leggendo questo pezzo di Alessandro Puglisi, qualche domanda me la sto facendo.

La vita dietro le tastiere

Intrattenimento. Questa è la chiave. Noi non siamo scrittori, siamo intrattenitori. “Facce ride”. Siamo i pagliacci seduti sulla vasca piena d’acqua delle fiere americane, devi abbatterli. Non perché puoi, ma perché devi. Ogni nostra riflessione, ogni appello, ogni discorso, che facciamo non è una riflessione, un appello, un discorso, è intrattenimento. E parte INTEGRANTE dell’intrattenimento è rovinare la vita di una NON-persona. Perché l’intrattenitore non è un essere umano, è un’icona, una bambola, un pezzo di plastica.

La massa di persone che si è riversata sul mio blog, ieri, dimostra essenzialmente questo: Facce Ride. Facce passà la giornata.

E io temo, davvero, che questo processo sia irreversibile perché comprende non solo chi calunnia, ma anche chi guarda e sta zitto.

D’Andrea G.L., Mostruosità, nota su Facebook del 19 giugno

 

D’Andrea G.L. chiude il blog.

 

Qui c’è una riflessione di Lara Manni.

Più in basso, poi, in questo stesso post, trovate una nota di Claudia Boscolo, Senza titolo, o meglio, senza parole, che ho creduto fosse bene portare anche fuori da Facebook.

 

Qui, invece, trovate la terza puntata della Società dello spettacaaargh!. Che forse c’entra anche qualcosa.

 

 

Senza titolo, o meglio, senza parole, di Claudia Boscolo

…o meglio ancora, con parole che andrebbero spese perché non cali il silenzio e i fenomeni rimangano inavvertiti, inosservati. Fenomeni che sono invece segni di decadenza laddove dovrebbe esserci apertura e innovazione (parola inquinata dall’operato di un ministro, vero troll morale di questi tempi bui, ma pur sempre ricca di significato).

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Dimanche

E’ vera Dimanche quando capisci che per trovare un punto d’appoggio devi perdere tutti i punti d’appoggio, uno dopo l’altro, fino all’ultimo.
Il vuoto.
Il vuoto è il punto d’appoggio.

Presentiamo La terapia come ipertesto

La terapia come ipertesto

In due serate (ho scelto due città delle Marche: Macerata e Pesaro) presenterò il mio lavoro insieme ad amici che ho scelto come interlocutori in base a due criteri: uno, che facessero un mestiere diverso dal mio; due, che fossero amici conosciuti on line. Così converseremo sul filo che separa artificiosamente i campi del sapere, intesseremo discussioni senza curarci dei confini arbitrari con i quali siamo soliti distinguere pezzi della realtà, in cerca di somiglianze, differenze, assonanze, parentele nascoste.
Sabato 11, alle 18, ci si vede all’Enoteca 075 di Pesaro (in via Rossini, Palazzo Gradari). A Pesaro sarò con Jacopo Nacci, autore di racconti, blogger e una serie di altre cose che scoprirò quella sera. Perché c’è un criterio “due bis” in base al quale ho scelto gli amici con cui parlerò del libro: non ci siamo mai incontrati nel mondo reale. Così in quelle sere, al Binario Zero e all’Enoteca 075, accadrà qualcosa che avrà a che fare con la distanza che separa il virtuale e l’attuale. Se ci siete, mi sa che ci divertiamo.

Così dice qui Max Giuliani in merito alla presentazione, che faremo assieme, del suo e non solo suo La terapia come ipertesto. Ricapitolando, dunque: siamo sabato alle 18 a Palazzo Gradari – in cortile se il tempo è bello; di sotto, al chiuso, se il tempo è brutto – e io ancora non so quale mestiere faccio, ma so che è diverso dal mestiere che fa Max: piano piano, per esclusione, ci arrivo.

La società dello spettacaaargh!

Su Scrittori Precari, terminate le mitiche Sforbiciate del lunedì dell’ottimo Fabrizio Gabrielli, comincia la serie di post La società dello spettacaaargh!, botta e risposta tra Matteo Pascoletti e me, botta e risposta che ci servirà soprattutto a capire il senso del titolo. E’ probabile che discuteremo di volgarità, di ironia reificante, di trolling sofistico, di idolatria e tifoserie, di scetticismo etico, di cinismo e nichilismo, di applausi ai funerali e di tecnomistica delle simulazioni collettive di dolore, delle “narrazioni”, dei “moralista”, dei “dài cazzo”, dei “me l’hanno ammazzato due volte” che ci parlano e sembrano trasformarci in automi ponendo in discussione anche la nostra presupposta autonomia mentale. Ma, se conosco Pascoletti, so che lui vorrà soprattutto parlare del fatto che Benigni è il male.

Dimanche

Simone Weil

«Noi crediamo per tradizione, per quanto riguarda gli dèi, e vediamo per esperienza, per quanto riguarda gli uomini, che sempre, per una necessità di natura, ogni essere esercita tutto il potere di cui dispone» (Tucidide). Come un gas, l’anima tende ad occupare la totalità dello spazio che le è accordato. Un gas che si restringesse e che lasciasse un vuoto sarebbe contrario alla legge della entropia. Non succede così col Dio dei cristiani. È un Dio sovrannaturale mentre Geova è un Dio naturale.
Non esercitare tutto il potere di cui si dispone, vuol dire sopportare il vuoto. Ciò è contrario a tutte le leggi della natura: solo la grazia può farlo.
La grazia colma, ma può entrare soltanto là dove c’è un vuoto a riceverla; e, quel vuoto, è essa a farlo.

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Girato al contrario

Un estratto da La seconda persona di Demetrio Paolin:

Demetrio Paolin, La seconda personaIl caffè nella macchina sale e copre il rumore dell’acqua. Sei circondato dall’acqua, lui è in bagno a farsi la doccia e fuori piove. Tu abiti in un bel quartiere, ti dici mentre guardi dalla finestra con la tazzina in mano. Il rosso dei coppi, le antenne e i balconi che ti circondano hanno assunto le sembianze di persone care. Parli ai tetti, ai lampioni e alle vie come da piccolo facevi con le macchine e i robot. A loro ti rivolgi quando un incubo ti spaventa e ti svegli nel pieno della notte. Anche ora cerchi in questi pezzi di città incarnata una possibile soluzione a quello che è successo.
Lui si è alzato e ti ha detto: ora ci vuole una bella doccia. Non ha aggiunto altro, come se fosse un fantasma o un automa con la sua faccia e le sue sembianze. Credi sia tutto dovuto alla pioggia – che batte con ritmo ineguale, che senti scrosciare dalle grondaie, che picchietta sugli ombrelli delle persone, che sembra ti entri dentro, fin nell’intimo.
Ma non lava, questo pensi; questa pioggia non lava niente, non pulisce, anzi, complica le cose. È la disperazione delle madri che devono pulire i pavimenti, la noia di chi è in giro per lavoro o per compere e deve trovare un posto dove stare finché non spiove. Acqua che non lava, ma anzi sporca – sorta di universo capovolto. Quello che è accaduto ha messo a soqquadro il mondo, lo ha girato al contrario: lo storto s’è raddrizzato, il dritto curvato e la pioggia non ha purificato ma reso lercio tutto.

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