Nei giorni della sua uscita, Strappare lungo i bordi è diventato oggetto di ampio dibattito sui social. La dinamica è ormai standard: si passa quasi subito dal discorso sull’opera al discorso sui discorsi sull’opera, che si radicalizzano come encomi e stroncature non tanto dell’opera ma della parte avversa a quella che si sceglie per appartenenza o immedesimazione. Del resto la serie di ZC si presta alla polarizzazione, perché pone una questione generazionale, anche se chiaramente non lo fa per animare conflitti e far discutere – non su questo punto, almeno – ma semplicemente perché è un argomento implicato dalla storia che racconta. Anche io farò un discorso sui discorsi: non ci trovo in sé nulla di male, e la questione generazionale sollevata è interessante.
Sono più grande di Zerocalcare ma l’esperienza non è stata diversa da quella che racconta il suo protagonista, vuoi per l’àmbito in cui sono finito a studiare, vuoi per la formazione pop simile – vuoi, forse, per indole, ma proprio questo è il punto, poi ci tornerò.
Prendo quindi le mosse da una somiglianza nel percorso – se di percorso, in queste condizioni, si può parlare – e nell’essere soggetti a una dialettica tra una vita socio-economica che ti prende a mazzate, con inevitabili conseguenze su tutti i piani, e la tentazione dell’escapismo da attuare per mezzo dei rassicuranti prodotti culturali pop che a venderti, però, è lo stesso capitalismo che ti prende a mazzate.
Da parte della generazione precedente alla mia, quella che ha scampato la precarizzazione – una cosa di cui a una certa non si poteva nemmeno più parlare perché eccheppalle ‘sti precari – ho letto, talvolta come critica, talvolta come presa d’atto, che Strappare lungo i bordi sarebbe una messa in scena della sconfitta, dell’accettazione di una forma di vita fondata sulla combinazione tra lo sguardo in basso come modalità esistenziale e la militanza politica come palliativo, sfogo, velleità, là dove questa militanza politica, di sinistra ed extraparlamentare, viene vista come un gioco a vuoto, a risultato zero (su questo ci sarebbe da discutere ma accettiamo, per beneficio di analisi, che in buona parte dei reali attualmente possibili lo sia; intanto prendo nota che ciò che è minoritario è minoritario perché, è un’ovvietà ma è bene ricordarlo, chi lo critica in quanto minoritario ha scelto una via maggioritaria perché evidentemente se lo poteva permettere).
Al di là dei giudizi morali e politici, questa lettura della forma di vita centrale in Strappare lungo i bordi mi sembra fenomenologicamente corretta. Il problema però è che l’unico modo per sfuggire a una vita costruita sull’asse rassegnazione-palliativo è precisamente stare nel gioco del capitale. Questa lettura che ho definito fenomenologicamente corretta è rinvenibile in due declinazioni diverse, in discorsi ideologicamente opposti: il discorso esaltato dalla competizione alla morte – lanciato da pulpiti piuttosto grassi, chissà perché – e il discorso opposto, fatto da compagni anziani, che è più o meno questo: raga dai, vero che il sistema fa schifo, vero che siete vessati, vero che la giungla è cattiva, ma bisogna tenere lo sguardo alto e dritto, non per adesione al sistema ma per amore di sé, per istinto di sopravvivenza, proprio per non pagare su di sé il prezzo che vogliono imporvi (o, meglio sarebbe dire, bisognava tenere lo sguardo alto e dritto: in effetti il problema di non essere attrezzati, di non aspettarselo, ha coinvolto un’unica gnerazione; chi è arrivato dopo è stato avvertito da subito).
A me pare che il punto di incomprensione, il maggiore dei fraintendimenti, sia qui. Gli anziani compagni che invitano all’amore di sé, e che evidentemente hanno avuto e hanno la struttura per sopravvivere nel capitale, parlano come se lo sguardo in basso o la condizione di marginalità fossero delle scelte, e non, come è stato spesso, spessissimo, condizioni di incapacità materiale, di inadeguatezza, di non-saper-fare, e anche di essere letteralmente scartati, anche fosse solo per una mera questione di sovrannumero.
La possibilità di starci dentro in pieno e con successo, sebbene sdegnosamente, non c’è mai stata; l’unica alternativa è sempre stata quella tra il vivere male con un grottesco entusiasmo per come si vive e con euforica adesione al sistema che lo impone – e ne conosciamo – e vivere male con rassegnazione e con una prospettiva critica verso il sistema che te lo impone.
Ora, non fa statistica ma ha pur sempre la dignità dell’osservazione personale: se quell’invito alla navigazione critica arriva dai più anziani e scompare sempre più mano a mano che si scende con l’età, fino a sparire alla mia altezza, nella quale ci sono o gli entusiasti, che abbiano avuto i mezzi per starci dentro o meno, o i critici, che faticano a starci dentro o che, se anche ce la fanno, non azzardano inviti a rambeggiare nella giungla, be’, allora è avidente che a un certo punto c’è stata una frattura, è successo qualcosa che ha piegato gli sguardi in basso.
E qui siamo al nodo centrale.
Credo che i più anziani, critici ma adatti alla sopravvivenza, siano cresciuti in un mondo in cui quello della riuscita economica e sociale non fosse l’unico parametro sul quale giudicare un individuo, e, la metto in un altro modo, sono cresciuti in un mondo precedente a quello in cui ogni genitore formatosi nel boom ha desiderato che i figli fossero qualcosa di speciale, il che è ovviamente impossibile, ed è un carico capace di piegarti la testa nello stesso momento in cui ti mette al centro del mondo: quella faccenda dei fili d’erba qualcuno l’ha trovata un po’ kitsch, ma credo che il punto sia qui. La metto in un altro modo ancora: la mia generazione e quelle posteriori hanno subito l’ideologia meritocratica nella sua manifestazione più violenta, e l’hanno introiettata come valore, volenti o nolenti, trasformandosi o in darwinisti sociali furiosi, o in vittimisti, vittimisti per non essere stati messi nelle condizioni di soddisfare le aspettative, e in questo caso hanno denunciato che il gioco era truccato ma fondamentalmente hanno continuato a credere al gioco, hanno aspirato a partecipare al gioco invocando una compensazione, in quanto vittime.
Ma non solo. Si può anche credere di aver smesso di volere il gioco, si può persino fare militanza contro il gioco, e tuttavia continuare a subirlo psicologicamente. I disoccupati e gli ex-disoccupati lo sanno bene quante volte si sono vergognati a definirsi disoccupati anche se sapevano che non era colpa loro, anche se credevano che letteralmente non era una colpa, che letteralmente non esiste una colpa (a tal proposito, almeno al centro-nord siamo passati da una situazione pre-2000 in cui era un’onta, a una pre-2010 in cui era ancora un’onta anche se di disoccupati in giro ce n’erano un botto, a una in cui lo abbiamo finalmente accettato – quasi – come una realtà, per grazia del signore). È inutile – e forse addirittura controproducente – smettere di credere che l’ordine morale-teologico del capitalismo meritocratico ti definisca, se poi continui a sentirlo.
Dal vittimismo piagnone si esce prima riconsiderando il proprio percorso come determinato dalla storia, e non dalla volontà, e poi capendo che questa comprensione del proprio essere determinati non basta a uscire dal vittimismo se si continua a pretendere una qualsiasi forma di riconoscimento, di compensazione morale, o anche solo se si continua ad alimentare un risentimento ripetendosi che il gioco non era pulito. Il gioco non può essere pulito, il gioco va abolito, perché ogni gioco basato su una morale postula una libertà che la bruta materia non prevede, e in questo risiede l’assoluta immoralità della morale meritocratica. È necessario fare proprio il sentire che non si deve un cazzo a nessuno. È necessario pensare a quello che si vuole, non a quello che si deve e nemmeno a quello che è dovuto. Non si esce mai dallo stato di natura, le cose bisogna prendersele. Dunque quella che era tacciata come una militanza-palliativo ora appare come l’unico modo possibile: questo sistema non migliorerà, non può migliorare, perché è impostato sulla finzione; puoi solo sperare di spazzarlo via. Intanto è bene cercare ancora di sopravvivere, e smetterla effettivamente con le lagne, che esteticamente non stanno bene, ma anche mettere a frutto quello che lo sguardo basso ci ha insegnato e non fare prediche del cazzo.