It’s yourz
The world in the palm of your hand
It’s yourz
Wu-Tang Clan
Era venuto fuori in autobus, alle sei e tre quarti del mattino, mentre andavamo a prendere il treno per Firenze.
Mi aveva domandato:
– Hai spento il fornello?
Lì per lì non avevo capito di cosa stesse parlando. Il fornello. Rimase sospeso in aria senza alcun significato.
– Ah – dissi poi, – il fornello! Oddio, no. Cioè: non no: non mi ricordo.
– Come non ti ricordi.
Rimanemmo lì a guardarci, aggrappati ai tubi dell’autobus, nella luce blu del primo mattino.
– Prova a ricordarti: devi ricordarti.
– Oddio, non mi ricordo, veramente.
– Cavolo, – ridacchiò lei – non l’hai chiuso.
– No, no. È solo che non mi ricordo. Vabbè. Non mi ricordo nemmeno di aver messo i pantaloni, ma non sono in mutande. Non preoccuparti, su.
Ma ero io quello preoccupato.
Il distributore del caffè era in mezzo al sottopassaggio deserto della stazione. Ero solo io e centinaia e centinaia di piastrelle. Lo raggiunsi, inserii le monete; quando ebbi dalla macchina il permesso di prelevare presi il bicchierino e tornai verso le scale del binario. Tremavo per il freddo e il caffè cercava di balzare fuori dal bicchierino, quindi infilai le scale molto attento a non far cadere nulla. Quando sbucai sul binario guardai verso la panchina di legno ma Daniela non c’era più. Non capii. Mi voltai attorno disorientato con il caffè in mano. Allora la vidi: era sull’altro binario, seduta sulla panchina. Avevo sbagliato scala. Lei non mi vide, guardava assorta verso il punto da dove sarebbe dovuto apparire il treno.
C’era lei là in quel modo. C’erano tutti quei binari.
Firenze era bella, camminammo tanto, tenendoci per mano. Ma avevo la febbre e non mi reggevo in piedi. Però lei voleva andare a Firenze e quel giorno era il suo compleanno, e così eravamo andati a Firenze. Pensavo che avevo lasciato il fornello acceso, e che al ritorno avremmo trovato i camion dei pompieri, i lampeggianti, il palazzo nero e sventrato.
– Saremmo dovuti tornare indietro, sai? Io lascio spesso i fornelli accesi.
– Come sarebbe spesso.
– Non so – avevo risposto, – mi è capitato.
Parlammo di Carver da McDonalds, poi risalimmo in treno.
Mentre tornavamo a casa in autobus immaginai il fumo levarsi da dietro le cime dei palazzi, e quando imboccammo la via vidi il rogo sovrapposto all’immagine che vedevo ogni giorno.
Salivamo le scale. Lei disse qualcosa, non mi ricordo cosa. Quando entrammo in casa ci sedemmo sul letto.
Fu allora che le afferrai il polso e glielo strinsi per qualche istante, senza dire nulla. Lei mi guardò triste, senza capire:
– Mi fai male– disse.
Mollai, lei andò in cucina, restai solo nella stanza. Guardai oltre la finestra. Il vento percuoteva forte gli alberi. Mi alzai. La raggiunsi e dissi:
– Scusa.
Sorrise.
– Non preoccuparti.
Mi abbracciò.
Tornai in camera. Mi spogliai e me ne andai in bagno. Mi infilai sotto la doccia. L’acqua era o fredda o bollente, smanettai la leva per tutto il tempo. Pensavo al suo polso. Piansi un poco, ma forse non per quello. Uscii dalla doccia, e la trovai stesa sul letto che scrutava il soffitto con gli occhi lucidi. Allora senza aspettare che si voltasse, senza richiamare la sua attenzione, le dissi che volevo smettere di stare con lei, che volevo lasciarla. Aspettai che piangesse un po’. Allora le dissi che non era vero, che non dicevo sul serio.
Erano giorni così. Non sapevamo cosa ci stesse accadendo. Quando non facevamo l’amore, non sapevamo bene cosa fare, o chi eravamo. Nei giorni.