Questa recensione è apparsa sull’Indice dell’aprile 2008.
Verino Lunari, disoccupato e scrittore emergente, tiene un registro dei sogni provocatigli dal Cipralex, il medicinale con il quale cura i suoi attacchi di panico. Spesso, come episodi di una storia, i sogni di Verino compongono una narrazione parallela alla vita: nella paranoia del tradimento da parte degli amici, attività onirica e veglia si respingono, si rincorrono e si travolgono l’un l’altra. Altre volte sogno e realtà intrattengono rapporti di apparente contrapposizione: mentre Verino analizza se stesso e gli altri riducendo quasi ogni essere umano a cosa, nel suo sogno ogni oggetto respira. C’è poi il sogno che è pura invenzione, lampo della mente, ipotesi visionaria: donne che si nutrono dalle ascelle, letture del pensiero frammentarie, fantasmi che vogliono infestare una casa ma sbagliano indirizzo. Il romanzo è appassionante, la scrittura di Candida non ha mai flessioni. La narrazione su due piani richiama il bell’esordio, La mania per l’alfabeto (Sironi, 2007), e anche nel Diario dei sogni torna il rimando all’aforisma 84 della Gaia scienza sull’apparente inutilità della poesia: poesia e necessità, condizione dello scrittore e condizione del lavoratore ordinario si ritagliano ognuna un proprio mondo, e sono mondi con scale di valori inverse.
L’unica intersezione in cui essi possono sovrapporsi e legittimarsi vicendevolmente è la realizzazione del libro; scrivere libri è fonte di autonomia, giustificazione del tempo perduto, unico modo di vivere in entrambi i mondi sentendosi a proprio agio. L’attività di scrivere è dunque per Verino, come lo era per Michele in Mania per l’alfabeto, un tentativo di emancipazione economica e redenzione sociale. Ma la contrapposizione tra mondo pratico e mondo dello scrittore è per Verino tutta interna al piano della veglia, accanto al quale Candida apre il piano del sogno. Se infatti Mania per l’alfabeto esibiva il racconto interno al romanzo come un vero e proprio racconto, al fine di ritrarre l’attività di scrittura come condizione di vita, in questo romanzo il racconto interno appare nelle vesti di registrazione del sogno: una scelta narrativa che, se interpretata in chiave simbolica, sposta il focus d’attenzione dalla notizia dell’esistenza della scrittura all’esplorazione della sua sostanza, dal suo che è al suo che cosa è. Saltando a piè pari la questione dell’autobiografia che, come lascia intendere l’autore nella nota finale, non sussiste, si può leggere l’opera come una rappresentazione spaziale di concetti, un’analisi dello scrivere esposta in metafore capaci di rivelarne aspetti profondi. Il diario dei sogni è una costruzione elegante, dove si lascia al lettore il gusto di scoprire combinazioni significanti, dove si innescano riflessioni su sogno e scrittura come tensioni tra bisogno di raccontare la realtà e desiderio di trasformarla o esorcizzarla, e dove il sovrapporsi di piani suggerisce l’idea di una terapeutica presa di distanza dal sé – l’alter ego onirico di Verino si chiama Marco – necessaria alla creazione di uno spazio dove dar forma alla parte malata o riprogettare sé stessi. Ma con il pericolo che, tentando di manipolare il sogno, si finisca per farsene vittime.