Grazia e giustizia
Desiderio e intelletto, in qualunque ordine li si ponga, danno luogo a due problemi che fanno dubitare della possibilità di equiparare il Logos greco-ontologico al Logos evangelico. Il primo problema è proprio che il Logos greco è ontologico e non psicologico: non è riducibile in termini fisici, l’altro sì; non ha limiti, l’altro sì. Ora, il messaggio evangelico è Logos in quanto messaggio e si rivolge all’essere umano in quanto limitato, anzi, fa della presa di coscienza del limite il cardine del suo insegnamento, e di fatto individua la radice del male psicologico proprio nella pretesa dell’intelletto umano di eguagliare il Logos ontologico. Il secondo problema che si presenta è che, facendo di intelletto o di desiderio la radice dell’Essere, il mondo appare così come lo vorrebbero e se lo rappresentano gli schopenauti: o ordine razionale senza valore intrinseco (intelletto) o infinita catena alimentare intrinsecamente triste; il che non sarebbe di per sé uno scandalo, a dirlo, se fosse vero. Il fatto, però, è che se si segue il consiglio-Logos evangelico entrambe le rappresentazioni – essere come intelletto e essere come desiderio – vengono certo non annullate ma sicuramente integrate nella comprensione, anzi: nella scoperta del mondo come gratuità, come opportunità di vivere, come bene e bello.
Venendo ora al primo problema – che al secondo penserò pensando alla Terza Forza, lo Spirito – ovvero l’irriducibilità del Logos evangelico a Logos ontologico, si può osservare che da sempre, in filosofia, è in atto un tentativo di conciliazione di ciò che appare a prima vista come una contraddizione: desiderio o amore? volontà d’intellezione totale o accettazione del limite? giustizia o grazia? Come può il Logos evangelico essere il Logos greco quando le loro nature sono opposte?
La risposta di Schelling, così come quella di Freud, è che la gratuità viene dal desiderio: per sublimazione. In Schelling, per esempio, la parte egoista del fondamento oscuro – che in sé è caos, ma non male, nel senso che non ha una volontà malvagia – può, salendo al livello del Logos, usare il verbo per il male. Che significa usare il Verbo per il male? Significa reificare il piano delle leggi, della giustizia insita nella logica, e farne l’unica soluzione, la soluzione finale, per l’appunto, per ogni controversia umana, comprese quelle tra noi e noi stessi. E allora qui, secondo Schelling, è necessaria una ulteriore evoluzione: la luce che si era fatta Verbo deve assumere un altro aspetto, quello dell’Amore. Vale la pena di distinguere, qui, tra capire e comprendere: quando il Logos si rivolge al Fondamento oscuro e lo comprende come Fondamento oscuro, che è essenzialmente desiderio della propria individualità, il Logos in qualche modo sospende – non per incapacità, che ne nascerebbe l’errore, ma appunto per rispetto del desiderio del Fondamento, desiderio che, in dialettica con il Logos, si fa volontà – la propria azione totalizzante lasciando che il Fondamento oscuro sia se stesso: questo processo genera la Terza Forza, lo Spirito, che è amore. L’Amore trionfa sul piano dello Spirito, trionfa sul Male fattosi Verbo. Come? Come Grazia, vale a dire perdono. Non è difficile scorgere qui il monito di Simone Weil: il bene deve elevarsi a essere amore, se non vuole porsi sullo stesso livello del male ed essere un bene da codice penale. La grazia è una sospensione della giustizia, un sollevarsi leggero, un prendere in considerazione l’individualità del caso e non la generalità della legge (che può diventare ideologia e morte, come dice Schelling: il Male che ha assunto la forma di Verbo, ideologia della morte).
Che giustizia – come principio astratto e impersonale – e amore fossero in aperta contrapposizione – e che quindi lo fossero anche Antico e Nuovo Testamento – lo aveva già notato Marcione, che forse più di chiunque altro ha inteso il messaggio cristiano come rivoluzionario proprio nei confronti del preteso “padre” ebraico: secondo Marcione, Gesù è l’emissario di un dio sconosciuto, il dio del Nuovo Testamento, che adotta un popolo, l’umanità, generato da un altro dio, un dio di giustizia implacabile, che è il dio dell’Antico Testamento. Anche il supposto antisemitismo di Marcione andrebbe letto come una contrapposizione culturale al popolo della legge del taglione e compreso come lo stesso presunto antisemitismo di Simone Weil.
Ora, per Schelling e Freud (e anche per Wilhelm Reich, a quanto mi è dato a vedere) è possibile che attraverso inibizione e sublimazione la logica – che di per sé ci parla non delle cose ma dei rapporti tra le cose – divenga considerazione del valore, ovvero che la giustizia divenga perdono; e che il desiderio divenga volontà e infine amore, cioè gratuità, volontà di donare.
Ecco che con il concetto di sublimazione si mettono d’accordo Logos ontologico e Logos evangelico: Gesù diventa Logos nella sua completezza, di Logica della realtà e di Verbum di salvezza, cioè nella sua umanità, nella possibilità di muoversi sia sul piano dell’anima sia sul piano dello spirito. E del resto il Dio che crea cieli e terra secondo le loro leggi immutabili è lo stesso Dio che ti permette di morire a te stesso e resuscitare nella grazia. E del resto lo stesso Dio che ha creato l’universo e l’universalità delle leggi, la loro astrazione, è lo stesso che crea le singole individualità, i loro percorsi e il loro irriducibile valore, il loro peso.
Hans Jonas oppone al Dio geometrico cartesiano la possibilità di un Dio biologo: possibilità che nel discorso jonasiano diviene necessità: dato che, spinozianamente, non può esservi nel mondo alcuna cosa che le sue stesse possibilità non contemplino, allora perché si deve prendere la pietra e non l’ameba come simbolo della creazione? Se Dio è un biologo ecco che il Verbo, inteso come Cristo, cioè come uomo tra gli uomini, capace di restituire nel suo stile di vita e nelle sue possibilità emotive la gratuità divina, è insieme Logos-Sapienza, cioè natura, e messaggio, cioè Caritas-Saggezza, come autosuperamento della propria natura per mezzo della propria natura, autosuperamento della pietra in sé per mezzo dell’ameba in sé. In questo modo la frattura sembra scomparire.