“Oh, ragazzi, attenti, c’è coso… Giulio… Il Dimpe… Che sta vomitando!”. Il Dimpe si è cacciato due dita in gola, e in piedi in mezzo al prato si sforza di vomitare. Chiaramente esce poca roba, non ha in corpo che i funghi e il tè freddo con cui li ha mandati giù; ciò che rende la scena orribile è che sta vomitando in piedi: si infila le dita in gola rimanendo eretto e quel poco vomiticcio che ce la fa a uscire – un liquiduzzo bluastro-verde – gli cola sul collo dai lati della bocca. Pare inoltre avvolto da un’aura malsana – tutti ora non guardano che lui -, mentre è scosso da tremiti violenti: è come se sprigionasse onde negative, amplificate e trasportate dal suonaccio da banshee che emette, una specie di incrocio tra un gorgoglio e un lamento straziante.
Si volta verso i cinque compagni: gli occhi, gonfi di lacrime per lo sforzo, sono quelli di un cucciolo legato ai binari che guarda arrivare la locomotiva:
“…Tran… quil… li… è… nor… ma… le…!”.
Ah, be’, se è normale. Se uno impelagato in una situazione tanto grottesca ha le palle per dirti che è normale, allora è normale.
Passa una mezz’ora, la situazione è tanto ingestibile quanto destinata a peggiorare. Peggiorare alla grande, pensa Iacopo vedendo sul cellulare che sono lì neanche un’ora.
Scatta la fase degli intrippi da arancioni, e tutti, seduti o distesi, espongono agli altri le proprie visioni cosmiche.
Il Dimpe, rassicurato dal vomito, adesso è decollato davvero, fuori da questo mondo. Iacopo sproloquia, tiene una conferenza, si crede un filosofo: “Qui, QUI-I, siamo in un ambito CHE! PUÒ! ESSERE SPIEGATO… …solo con… le… CATEGORIE! DELLO! SPIRITO!”.
L’attenzione è per lui. Solo il Dimpe obietta e li informa che sta vedendo il mondo implodere. Iacopo si alza: “Vorrei vederlo, sì, vorrei vederlo, Voltaire, vorrei vederli Rousseau e Cesare Beccaria (Cesare Beccaria!?), rimbombati di questi funghi! AAAH, certo, passatemi il termine, rimbombati, perché?, non siamo forse rimbombati? Be’ vorrei vederli, qui, ora. E sapete, SAPETE!, quanto mi dispiaccia, a me che sono un figlio bastardo dell’Illuminismo, un positivista da due lire, lo sapete quanto mi dispiaccia sbeffeggiare i padri. Ma qui, signori, solo le categorie della spiritualità sono tarate per dir qualcosa che non sia una cacata…”.
Anche Filips è preso, e, forte di un momento di lucidità, chiosa pure: “Non sarà certo un caso se tutti i bimbi che han visto la Madonna sono pastorelli. Niente lustrascarpe, niente studenti, contadini, fiammiferaie o sguattere: solo pastorelli. E dove nascono questi funghi, gli psylocibe? Nei pascoli”. Il Dimpe sfoggia formazione medica ribattendo che, però, quando il Nobel Francis Crick ha intuito l’elica del DNA era in acido, ed è uno scienziato, mica un mistico.
Tchan Pua segue affascinato il dialogo. Il Malpa e il Paride invece, ben usi alle trite conferenze iacopiane, stanno già facendo altro – il Malpa fissa un pezzo di corteccia, il Paride si tocca la faccia disperato. Poi è proprio Tchan Pua a richiamare l’attenzione di tutti: “Che dite, avrò fatto bene a mangiare i funghi avanzati da Filips?” sussurra con un sorrisone da Garfield. Ora, chiunque le prenderebbe per il collo e gli griderebbe in faccia, chiedendogli se sia impazzito, solo che tutti sono al corrente che questo qua è alla sua prima esperienza psichedelica, che si sta facendo già TROPPO grossa con il “pacchetto base”: informarlo che ha fatto una cazzata colossale significa aumentare il rischio che gli prenda male. Sicché tutti a ridere. Chissà in che dimensione sarà quel thailandese, nel giro di mezz’ora. Dopo trenta minuti tutto diventa in effetti orrendamente ingestibile, non solo per Tchan Pua, ma per tutti quanti. Il Dimpe sta per raccontare anche del presunto ruolo avuto dagli psichedelici nell’invenzione della reazione a catena della polimerasi, quando d’un tratto si blocca, sgrana gli occhi e supplica non si sa quale dio: “Aiutami…! Ragazzi… cioè… qui è impensabile, non è che ho delle visioni, è che sono TEMPESTATO DI VISIONI. È troppo peso: peso, pesissimo, fortissimo”.
“È diventato un lavoro,” fa il Paride da dentro un boschetto.
Vanni Santoni, Gli interessi in comune