Pubblico, in una serie di post, l’intervento al Pesaro Comics & Games 2014.
(La prima parte, la seconda, la terza, la quarta, la quinta, la sesta, la settima, l’ottava, la nona, la decima, l’undicesima e la dodicesima)
L’altro me – l’avversario nell’animazione robotica classica
L’altra metà del cielo. Dopo Zambot 3, nel 1978, Tomino realizza Daitarn 3. Ci sono almeno due precisi suggerimenti che invitano a leggere Daitarn in connessione a Zambot: il 3 nel nome del robot, e l’evidente rovesciamento operato nell’arma finale, che è anche il nume di riferimento: Zambot aveva la luna, Daitarn il sole. Non si tratta solo di una contrapposizione tra la serie più drammatica e la serie più divertente di Tomino: Daitarn è tutto tranne che disimpegnato e leggerlo alla luce di Zambot ne illumina la natura meno visibile. Serie parodica, decisamente post-moderna, post-mecha o meta-mecha, Daitarn declina la sua tominiana essenzialità in chiave sociologica.
La contesa. Su Marte, colonia terrestre, il padre di Banjo ha creato, a partire da esseri umani, dei cyborg che poi si sono evoluti in meganoidi, con tanto di ideologia della specie superiore; guidati dal supremo Don Zauser (Don Zaucker nella versione italiana) e dalla sua fedelissima Koros, i meganoidi hanno preso il controllo di Marte. Zauser non parla: si scoprirà che vive in uno stato catatonico, di fatto comunica con la sola Koros mediante onde cerebrali. Banjo, fuggito da Marte quando i meganoidi ne hanno preso il controllo, li combatte, trasferendo in loro il suo odio per il padre, responsabile della loro genesi e anche, a quanto pare, di aver trasformato in cyborg sua madre e il suo fratello maggiore. Lo scopo dei meganoidi non è chiarissimo: è più o meno da tutti accettato che i meganoidi vogliano moltiplicarsi trasformando i terrestri o alcuni terrestri con la forza, ma nelle parole di Koros si tratta di proporre all’umanità un salto evolutivo che le permetta di distaccarsi dalla Terra e muoversi nello spazio, inaugurando una nuova era antropologica; di fatto non incontriamo un solo meganoide che non sia contento di esserlo: se i non graduati pare siano stati trasformati sotto ipnosi o amnesia – processi atti appunto a svincolarli dalle pastoie che impediscono il salto evolutivo – almeno per i comandanti si è trattato di una scelta personale e consapevole, e l’andamento della serie porta a sospettare che sia Banjo a non raccontarla giusta sulle vere mire dei meganoidi, tendendo a criminalizzarli per alimentare e giustificare la sua guerra. In ogni caso è evidente che l’invenzione del meganoide si configura come un evento-sfida che irrompe nella storia umana e la spezza in due, obbligando ognuno a prendere una posizione netta.
I topoi classici: in Daitarn ritroviamo il tema dell’orfano quasi extraterrestre (in linea con la scelta di un immaginario più realistico); il contagio della tecnica; il padre che è padre della tecnica; il (non sempre cripto) fascismo dell’avversario; il robot di seconda generazione che media tra eroe, abisso e principio superiore solare; l’irruzione oltre il varco nell’ultimo episodio, che si svolge su Marte.
Rovesciamenti. Malgrado ciò, Daitarn è probabilmente la serie più complessa e difficile da interpretare almeno tra quelle appartenenti alle prime due generazioni di super robot. Abbiamo a che fare con la prima serie super robotica a porsi apertamente come parodia degli stilemi mecha. Abbiamo a che fare con una serie che si propone apertamente come il rovesciamento di Zambot. Abbiamo a che fare con una serie – direi la prima – che pone in gravissima crisi l’immagine samuraica e genericamente morale dell’eroe. Abbiamo a che fare con una serie che si ritira parzialmente dai territori della fantascienza super robotica per insediarsi nell’immaginario e nell’estetica spy story. Se combiniamo questi quattro fattori fra loro è evidente la complessità e la ricchezza di spunti, ma anche di letture plausibili. Credo che questi quattro fattori siano tutti riconducibili al concetto di rovesciamento, anche se, mentre è facile comprendere questa relazione in merito ai primi tre, rimane forse più ostico in relazione all’ultimo, e nel prossimo post cercherò di rendere la cosa più chiara.
Sovversioni. Va detto, in ogni caso, che se anche la traccia di senso ottenuta leggendo Daitarn 3 come rovesciamento rispetto a Zambot 3 e alle serie super robotiche in genere è un percorso autorizzato e più che legittimo, questa traccia di senso viene costantemente disturbata dal rumore del motore della sua stessa genesi, ovvero dalla stessa natura sovversiva della serie, natura sovversiva che, risolvendosi diverse volte in un vero e proprio anarchismo narrativo, impedisce una lettura coerente che sia anche esaustiva, manifestandosi negli innumerevoli apparenti non-sense tra i quali è difficilissimo scegliere quelli che compongono un senso altro rispetto al piano più superficiale della narrazione, e nel caso è difficile anche capire come combinarli; e si riscontra una tendenza al surreale che può impossessarsi di una situazione e manipolarla o moltiplicarla in un gioco di specchi – l’anime è pieno di citazioni, anche da se stesso – fino al punto in cui il senso diventa davvero irricostruibile; tutto ciò rende quanto meno ardua un’interpretazione ultima della storia. Ma ci proveremo. Se pure è probabile che Daitarn sia stato occasione di necessario alleggerimento dopo la fatica psicologica di Zambot, Tomino rimane Tomino, e fa sul serio anche quando gioca.
Chic. In ogni caso l’anime diventa fucina di soluzioni deliranti e al tempo stesso sempre eleganti: si pensi al volto signorilmente allibito del Daitarn, o allo stupendo ventaglio. Ma anche questo non è un particolare da poco: nel prossimo post vedremo quanto lo stile sia uno dei vettori del conflitto tra Banjo e i meganoidi, conflitto interno alla società dello spettacolo che Daitarn 3 non solo rappresenta quando ritrae il mondo contemporaneo – non potrebbe essere altrimenti – ma della quale si pone come rappresentazione consapevole attraverso una serie di stratagemmi che vanno dalla fissità dei ruoli stereotipati, alla ripetitività, all’uso caricaturale e insistente dei cliché del culto dell’immagine – come i riflessi brillanti dei denti – alla comparsa talvolta di vere e proprie macchine da presa nella storia, alle ossessioni narcisiste di Banjo e dei comandanti meganoidi.