Pubblico, in una serie di post, l’intervento al Pesaro Comics & Games 2014.
(prima parte, seconda parte).
L’altro me – l’avversario nell’animazione robotica classica
Prospettive della dimensione politica. Prendiamo Mazinga Z (1972). Il nemico ha connotazioni occidentali ed è un nemico contro il quale si schiera un robot fatto di Japanium: il punto di vista qui è nippocentrico. Il Doctor Hell, il nemico di Mazinga Z, è uno scienziato tedesco, che è stato nazista, così come il suo sottoposto Conte Blocken. Nella sua guerra per la conquista del mondo, Hell si serve di mostri meccanici costruiti secondo l’antica tecnologia di Micene, e intende impossessarsi del Japanium per integrarlo nella loro costruzione e renderli invincibili. Al contrario Mazinga Z è un robot costruito a scopo di difesa, perché la tecnologia può essere dio o demone, e la differenza morale qui la fa lo spirito giapponese, cioè il pilota come umanità, testa, ghiandola pineale del robot; su questa linea evolutiva, in Mazinkaiser (2001) Koji dovrà prima di tutto limitare, controllare il robot, e solo allora pilotarlo.
Il dominio della tecnica. In generale – non sempre – non ci troviamo tanto di fronte alla tesi di una natura neutrale della tecnica, il cui risultato dipenderebbe in toto dall’uso che se ne fa: piuttosto l’anime mecha sembra spesso lasciar intendere che la tecnica abbandonata a se stessa tende a prendere il sopravvento, e che l’eroe domina la tecnica nella misura in cui il suo cuore e la sua coscienza sono forti, mentre l’avversario appare anche visivamente dominato dalla tecnica.
Nell’universo degli anime robotici si scontrano da un lato l’umano che si serve della tecnica, il pilota nella testa del robot; dall’altro la tecnica che si serve dell’umano e della vita, esemplificata anche dai corpi riassemblati dei gerarchi ostili, e dai mostri meccanici che traspongono forme umane e animali, spesso le ingabbiano apertamente: molti mostri meccanici degli anime robotici classici sono creati a partire da schiavi, ostaggi, prigionieri o animali.
Greci, Micenei e nazisti. Tuttavia già in questa prospettiva di scontro frontale, apparentemente non ambigua, si insinua qualcosa che frammenta il quadro. La tecnica, forma di espressione prediletta dalla volontà di potenza occidentale incarnata da Hell, risplendeva con ragionevolezza nell’antica Micene e ora rende possibile lo stesso Mazinga Z; i mostri meccanici di Hell ne rappresentano una perversione, così come quelli forniti, nella seconda parte della serie, da Gorgon, ambasciatore di una Micene da tempo deviata in una gerarchia oscura di uomini-bestia robotici che abitano il sottosuolo. E al fianco di Mazinga lotta un robot dal nome greco guidato da Sayaka, Afrodite A: l’Occidente e la tecnica sono anche i Micenei originali e i Greci che li hanno soppiantati, e che sono umani, umanisti, e rappresentano l’armonia delle forme fisiche e concettuali, ciò che argina il mostruoso, l’Apollo del Tempio di Olimpia che severo blocca il centauro.
Divenire l’altro. Dunque l’altro è diviso (i Greci, i nazisti, gli Americani) e se ne può accogliere una componente. Nel caso di Afrodite A è forza, armonia, tecnica, e appare come un prelievo asettico, privo di conseguenze. Ma la questione nella produzione nagaiana è più complessa, e l’anime di Mazinga Z ne rappresenta forse il caso più semplice. A volte la componente che si accoglie è semplicemente un frammento significante dell’universo dell’avversario: la squadra Getter (1974) affronta l’impero dei dinosauri imbrigliando, grazie alla tecnica, l’energia cosmica primordiale dei raggi getter che nel Mesozoico aveva determinato la fuga dei dinosauri nel sottosuolo; già più problematico è il caso di Hiroshi Shiba di Jeeg (1975): Hiroshi combatte contro creature antiche portando in petto un’antica campana di bronzo, che però è anche alla base del suo conflitto interiore: ciò che proviene dall’universo organicamente significante dell’altro non sempre è del tutto neutrale, forse si porta dietro qualcosa, contagia, se innestato genera una divisione nel soggetto, e può attecchire perché il soggetto è già strutturalmente predisposto alla divisione. Si può dire che la poetica di Nagai consista sempre in ciò: che per combattere il male è necessario un contagio, spesso non indolore, ma questa è anche evoluzione e dialettica, è crescita, formazione: Akira Fudo, Devilman (1972), per combattere i demoni deve farsi possedere da un demone per poi tentare di possederlo a sua volta, deve cioè arrivare a una sintesi moralmente positiva – ma di misura – e però in grado di lottare. La stesura di Mazinga Z pare sia cominciata durante quella di Devilman, e a dispetto dell’assenza di mecha, è a Devilman che conviene guardare per comprendere anche la produzione robotica di Nagai, che a sua volta influenzerà tutta l’animazione robotica successiva: in Devilman l’abisso oltre il varco è raccontato attraverso immagini che restituiscono la psico-teologia in modo più immediato: demoni, ibridazione, male e bene; vi troviamo già un orfano alle prese con un altro mondo.
Divenire l’altro come tecnica. Al di là delle per nulla tranquillizzanti implicazioni metafisiche e morali di Devilman, il concetto di farsi in parte come l’altro, e in modo doloroso, almeno per quanto riguarda l’aspetto della tecnologia, non è esclusivo della poetica di Nagai: Kyashan (1973) rinuncia alla sua umanità, e di fatto ad avere rapporti sessuali con Luna, per combattere gli androidi; per incorporarsi in Tekkaman (1975), George affronta ogni volta una devastante passione cristologica lasciandosi torturare dal filo spinato, quasi una corona di spine. In Ufo Diapolon (1976), Takeshi subisce un processo simile: non pilota Diapolon dalla cabina: ogni volta deve gonfiarsi, ingigantire dolorosamente il suo corpo biologico di decine di metri per aderire al robot come se questo fosse un’armatura, cioè per rendersi adeguato alla tecnica, rappresentata dal robot. Un robot che ha la forma di un giocatore di football americano: dice qualcosa?
Se si liquidano come ingenuità o insensatezze o manifestazioni del presunto masochismo dei Giapponesi queste soluzioni narrative – quando basta pulire lo sguardo da pregiudizi sminuenti per rendersi conto che gli autori stanno gridando qualcosa – ci si impedisce di ammirarle nella loro straordinarietà, nel loro misto di genuinità, dolore, urgenza storica e psicologica.
Nel prossimo post cominceremo ad attraversare il varco verso lo spazio psico-mitico.