Pubblico, in una serie di post, l’intervento al Pesaro Comics & Games 2014.
(La prima parte, la seconda, la terza e la quarta)
L’altro me – l’avversario nell’animazione robotica classica
Ciò che torna dall’abisso. Che significa passare dal raffigurare l’avversario come una potenza straniera che aggredisce dall’esterno (Mazinga Z), al raffigurarlo come un passato preistorico universale o mitologico (Getter Robot, Il Grande Mazinga), al raffigurarlo come un passato storico e mitologico, non privo di tinte horror, che ci appartiene, nel quale siamo radicati (Jeeg, Getter G)?
Significa sperimentare il male scontrandosi con un nemico apparentemente esterno; di quel male isolare la dimensione astratta e universale; e in questa riconoscere qualcosa che ci appartiene e a cui apparteniamo, un passato che ha a che fare con noi, che rivendica il possesso di ciò che riteniamo nostro, che ci aggredisce.
Nagai e il suo staff esplorano possibilità della rappresentazione in una direzione sempre più astratta, concettuale, simbolica, come se Devilman avesse preso possesso della progenie di Mazinga Z e sperimentasse di volta in volta una forma dell’anime robotico adatta a veicolare la sua catastrofe psicologica e metafisica, generando varianti particolari di una poetica del ritorno del rimosso che investe pressoché tutta la narrativa di guerra di Nagai. Persino il formato “un episodio un mostro”, che è senza ombra di dubbio un’esigenza puramente commerciale, si concretizza in un eterno ritorno del già stato e nell’attesa del sicuro, prossimo ripresentarsi del perturbante.
Il primordiale nagaiano. Sconvolge l’ordine del presente moderno: è il reale che buca la realtà quotidiana, appare nella sua oscenità, è il sempre-già-stato che continuamente riaffiora e costringe al superamento, segnando indelebilmente i corpi nelle mutazioni, nuove sintesi talvolta felici, talvolta mostruose. L’universo dei demoni di Devilman (versione manga e OAV) è costellato spesso e volentieri di suggestioni nietzscheane, superomiste: i demoni vivono la loro potenza come un’estetica e le loro relazioni sessuo-metamorfiche, in cui trionfa il più forte, come un’etica, esprimendo la gioia dionisiaca dell’ordine naturale al quale, diversamente dagli umani e dalla tecnica, aderiscono completamente.
I tre topoi formalizzati. Che si apra il varco e che la dimensione psico-mitica divenga accessibile è cifra tipica di Nagai, che formalizza la topica mediante il posizionamento delle sue strutture caratteristiche: ritorno del rimosso, predestinazione dell’eroe, robot come mediatore divino: è sufficiente trasformare la predestinazione materiale imposta da Kenzo Kabuto a Tetsuya in una soluzione narrativa che leghi l’orfano all’avversario secondo una necessità psico-mitica – l’ignoto è una predestinazione e dobbiamo farci i conti – per giungere allo schema dell’anime robotico classico. Perseverando nella sua esplorazione delle immagini dell’abisso, nel 1975, con Grendizer/Goldrake, Nagai si approprierà dello spazio siderale e ne farà apertamente il luogo di origine dell’orfano e del suo trauma-già-avvenuto che torna a sconvolgere il presente. Ma su questo anime dirò poco: è il mio varco e mi impone la discrezione dovuta al sacro.
La psico-teologia degli eroi. Vale la pena qui di ricordare una variante interessante: nella Gettersaga di Nagai e Ishikawa, la psico-teologia è collocata dalla parte degli eroi sfruttando la formazione a tre come non si vedrà mai più se non forse in Zambot e Starzinger. Contro l’informe primordiale che torna – l’impero dei dinosauri o quello degli oni – il Professor Saotome schiera una squadra di eroi che è quasi una trinità: Ryoma è volontà e immediatezza; Hayato è scienza e politica; Musashi è spiritualità e tradizione. Da parte loro combattere contro i dinosauri e gli oni è istintivo, e ognuno vi trasferisce i suoi motivi personali: il rimosso che torna dal passato in Getter è un telone su cui ogni eore proietta il suo fantasma traumatico.
Il varco è stato aperto. È ormai cominciata l’era classica della produzione animata robotica. L’universo degli avversari comincia a complicarsi e a configurarsi più radicalmente come psico-mito o psico-teologia, cioè uno spazio mitico o ordinato secondo una gerarchia di stampo teologico, esiodeo, come abbiamo visto, nel primo post della serie, nel caso di Malik e della sua statua Madre: uno spazio che è proiezione o parallelo della vita psichica, mentale. Si evolvono due stilemi, quello più schiettamente mitologico, intrapreso dallo staff Sunrise/Toei che porta lo pseudonimo di Saburo Yatsude in collaborazione con il regista Nagahama, e quello più filosofico intrapreso da Yoshiyuki Tomino. È interessante che Tomino e Nagahama lavorino prima l’uno poi l’altro a una stessa serie, purtroppo inedita in Italia, la cui programmazione precede quella di Jeeg e Grendizer/Goldrake: Raideen, prima serie super-robot targata Sunrise. Raideen è il primo robot non nagaiano a raccogliere l’eredità ed evolverla incorporando diversi tratti che diverranno tipici dell’animazione robotica posteriore al 1974: è un robot divino vero e proprio, ereditato dall’antica civiltà di Mu, che combatte contro degli akuma, ovvero dei demoni, che si trasforma e usa un’arma finale per chiudere i combattimenti; il suo pilota, Akira, è un ignaro discendente del popolo di Mu, apparentemente orfano di madre e il cui padre viene trasformato in pietra e sequestrato dagli akuma nel primo episodio.
Nel prossimo post torneremo sul tema dell’orfano extraterrestre, e lo seguiremo nell’irruzione al di là del varco.