Pubblico, in una serie di post, l’intervento al Pesaro Comics & Games 2014.
(La prima parte, la seconda, la terza, la quarta, la quinta, la sesta, la settima, l’ottava, la nona, la decima, l’undicesima, la dodicesima, la tredicesima e la quattordicesima)
L’altro me – l’avversario nell’animazione robotica classica
Realismo scafato. Perché questo immaginario da spy story? Perché è scafato. Il mondo dello spionaggio, degli affari, dei trucchetti è l’universo della gente pratica che sa come stanno le cose, la gente che ha poco spazio per l’immaginazione e si confronta con la pretesa realtà, cioè quel posto nel quale i personaggi sono inchiodati ai loro ruoli di genere e classe come i componenti del team di Banjo.
La realtà è finta. Se nel mecha classico l’eroe ha le carte in regola per confrontarsi con l’abisso, ed è per questo che il varco si apre e l’abisso si articola come altro dall’eroe, in Daitarn la quotidianità contemporaneamente è e occulta l’abisso, e ciò accade perché Banjo è cieco o reticente rispetto alla sua appartenenza all’abisso: Banjo vive il meganoide come totalmente altro da sé proprio perché non riconosce o non ammette che il meganoide non è totalmente altro da lui.
Rispetto a Zambot, Daitarn parla di ciò che avviene al sole, alla luce del giorno, ma che proprio per questo è a maggior ragione illusorio: è solo la superficie delle cose; l’energia solare di Daitarn non è una vera dissipazione dell’illusione: blocca l’avversario di Banjo permettendo a Daitarn di attraversarlo con quanto vi è di più distante dalla consapevolezza spirituale, con quanto vi è di più fisico: un calcio; e tutto ciò ha certamente una ricaduta sulla dimensione storico-politica: a cominciare dalla simbologia solare imperiale, passando per l’ambiguità che allude a una comune matrice tra Banjo e i fascisti meganoidi, fino a rinvenire, ancora una volta, nella potenza tecnica il reale e contraddittorio supporto di una teoria della supremazia razziale.
Senza contare che allo stesso passato dell’orfano in fuga si associa il simbolo più netto della ricchezza: l’oro. E non si può ignorare la connessione tra la simbologia aurea (denaro) e la simbologia solare (nume/nazione).
Il discorso Gaizok allo specchio. Su entrambi i fronti del conflitto troviamo, se pur declinati in modi diversi, gli assunti del discorso Gaizok: razza, tecnica, eternità, moralità. Ma nel finale (ep. 40) è Banjo a portare la spietatezza fino in fondo; è lo stesso episodio che si apre con le considerazioni di Koros: Se i meganoidi avessero la forza necessaria si emanciperebbero dalla Terra e se ne andrebbero volentieri, ma Banjo non glielo permette. Ora, non è ben chiaro ciò che Koros lascia intendere, e immagino che “forza necessaria” significhi una massa di umani forzatamente trasformati in meganoidi, e non che Koros e Zauser se ne andrebbero così come sono; tuttavia una cosa chiara che emerge in questo episodio più che in ogni altro è che Banjo non è disposto a trattare in nessun modo né a risparmiare nessuno, e qui sta l’osceno in Daitarn: la spinta interiore di Banjo, ciò che lo definisce, non è un senso di giustizia o l’amore per la Terra, ma il suo odio per i meganoidi, e lo dice chiaramente. Per quanto possa essere un odio di reazione, non è un odio di difesa; e per quanto Banjo abbia ottimi motivi per odiare suo padre e i meganoidi, per quanto abbia visto sua madre e suo fratello oggetto di esperimenti e poi probabilmente uccisi, Tomino lo spinge avanti oltre un’ultima linea, depositandolo infine in un luogo dell’abisso in cui non ci sono più né i meganoidi, né Koros, né Zauser, in un luogo oscuro in cui ci sono solo lui e il suo odio, che si impossessa di tutto lo spazio, e non c’è nient’altro.
Due modi della fissità, due modi del cambiamento. Banjo crede nella biologia, nel ciclo della vita umana, che però comporta una fissità allo stadio dell’umano e sul piano narrativo, come si è già visto, si manifesta come fissità dell’ordine sociale: la guerra di ceto con i meganoidi, i subalterni inchiodati ai loro ruoli di classe e genere. Al contrario i meganoidi credono nel salto evolutivo, che però comporta una fissazione della crescita biologica (è lo stesso Banjo a esplicitarlo nell’episodio 5).
Banjo eternamente ripete. Nel già menzionato penultimo episodio, dopo che Banjo ha formato il Daitarn ed è partito con la tiritera, il megaborg di turno, che – particolare degno di nota – è un mutaforma, dice: Conosco già il tuo monologo, la tua ripetitività è il vero nemico di noi meganoidi. Banjo risponde che le grandi frasi assicurano l’immortalità. Ora, qui è chiaro che Tomino sta prendendo in giro la ripetitività della sua serie più friendly e del mecha classico in generale, ma anche, su un altro piano, il monologo di Banjo è la retorica ripetitiva che il potere che fissa il tempo dispiega su se stesso, ed è il corrispettivo del ritornello Gaizok: qui è Banjo ha inchiodare il meganoide a un presente eterno con il quale Banjo e il nume solare si trovano in accordo categorico, annientando il salto in avanti che il meganoide rappresenta, fissandolo al suo presente eterno nella morte con l’attacco solare. Ora non vorrei addentrarmi in una discussione sul rapporto tra volontà di metafisica, risentimento e coazione a ripetere ma insomma, siamo da quelle parti.
Punizione Gaizok. Come il discorso Gaizok, l’ordine morale di Banjo è asfissiante; lui e la sua troupe sono la società dello spettacolo, che punisce chi cerca di strafare per adeguarsi ai suoi standard; i meganoidi sono dei poveracci, sono dei creduloni e dei timidi, dei perdenti, o dei frustrati che per quanto arrivati si sentono ancora sotto-standard, e che per questo si rivolgono alla tecnologia e al mito della razza superiore; presentano ogni giorno a Banjo il conto di chi non ce l’ha fatta a essere come lui, e Banjo quel conto non lo vede, non riesce a vederlo, e non vuole vederlo, ce l’ha davanti agli occhi e lo cancella, senza alcuna remora; è capace di parlare con un meganoide ascoltandone le pene e poi salire sul Daitarn e distruggerlo mentre gli spiega, richiamandosi al sentimento, quanto siano umani gli umani e quanto loro, i meganoidi, siano dei luridi robot, dei pezzi di metallo senza cuore: puro Gaizok. Il suo odio è tale che, nell’episodio 37, quando i suoi stessi compagni vengono presi in ostaggio dai meganoidi, arriva a dire al suo interlocutore: Ascolta, in questo momento non devi preoccuparti per gli ostaggi: ora l’unica cosa per cui vale la pena di lottare è uccidere anche un solo meganoide, e aggiunge che è questo ciò che fa la differenza tra un vincente e un perdente; non solo: il suo interlocutore è un meganoide in crisi, insomma questo invito a uccidere anche un solo meganoide Banjo la sta rivolgendo a un meganoide, il quale, dal canto suo, di rischiare le vite degli ostaggi non se la sente proprio.
Tra i pochi meganoidi con i quali Banjo entra in un minimo di empatia, c’è un nazista; le uniche volte in cui si preoccupa della vita e dei sentimenti dei meganoidi è quando sono belle ragazze, che appena morte subito dimentica, anche questo nel quadro di una tendenza alla sovversione continua, che anche là dove mette Banjo nelle condizioni di apprezzare o risparmiare un meganoide, con incoerenze di cui lui non avverte alcun peso e che non gli instillano alcun dubbio, ottiene il solo effetto di rendere tutto dannatamente leggero rispetto alla morte, cioè ottiene una sorta di effetto Butcher. Quando parliamo della versione solare di Zambot, ecco di cosa parliamo.
Il prossimo post è l’ultimo su Daitarn: esploreremo il peggior finale – per l’eroe – del mecha classico.