Pubblico, in una serie di post, l’intervento al Pesaro Comics & Games 2014:
L’altro me – l’avversario nell’animazione robotica classica
Una suggestione. È ciò che propongo. Avverto fin d’ora che sì, la mia aspirazione è descrivere la realtà, e tuttavia mi rendo conto che rischio di trasformarla, e non me ne faccio un grosso problema. Queste sono le considerazioni di una persona che si occupa di narrazioni, non di un esperto di anime, di un traduttore o di un filologo. Sicuramente i più competenti mi sgameranno fare qualche errore orrendo; nel qual caso sarò contento perché non si annoieranno, e sarò contento anche se questa serie di post dovesse essere d’ispirazione a qualche esperto.
Un campo. La suggestione che propongo riguarda gli anime robotici usciti fra il 1972 e il 1980, in particolare quelli di Go Nagai, di Yoshiyuki Tomino e della squadra composta dal regista Tadao Nagahama e lo staff Saburo Yatsude. E non tutti ma solo i super robot, cioè i robot che ricoprono un ruolo divino, mitologico – aspetto qui molto rilevante – come Grendizer/Goldrake, lasciando fuori i real robot, cioè le armi da guerra, come Gundam.
Avanzerò a cerchi concentrici perché ogni evoluzione rielabora organicamente le precedenti e si fa carico di qualcosa che nelle precedenti non era nominato direttamente e però era presente.
Dove sto guardando. Per me è difficile separare in questo ambito elementi shinto, cristiani, buddhisti e bushido. Ma va bene perché non è lì che sto guardando: mi interessano piuttosto gli archetipi plausibilmente universali basati sulla psicologia umana e sulla percezione umana della struttura dell’essere. Cosa intendo?
Combattler V inizia con questa scena: il cielo è buio, il vento forte, Malik, che presto scopriremo essere il capo delle forze armate nemiche, è in piedi sul palmo della mano di una statua gigantesca cui si rivolge con l’appellativo di “Madre”; Oreana, la statua, gli risponde che il privilegio di chiamarla Madre gli sarà concesso solo se riuscirà a conquistare la Terra; segue la trasformazione temporanea di Malik in un mostro antropomorfo dalla testa e dalle ali d’uccello. Nel terzo episodio, Oreana punisce Malik con scariche elettriche, dicendogli che il dolore che prova dovrà essere sostituito dall’odio. Ogni volta che deve conferire con Oreana, Malik sale su un ascensore che dalle sale della base-montagna-castello lo conduce all’area superiore, apparentemente a cielo aperto, nel palmo della mano di Oreana; ma non si tratta di un ambiente esterno vero e proprio, perché tutto, dal castello a questa area superiore, è nascosto nelle profondità di un crepaccio che taglia in due un’isola vulcanica.
Ecco. Questo è l’universo psico-mitico o psico-teologico popolato da personaggi-concetto cui mi riferisco quando dico che guarderò ad archetipi plausibilmente universali. Questo universo, negli anime robotici, è quasi sempre rappresentato dalla parte dell’avversario. Sia chiaro che interrogherò solo i testi, cioè gli anime, e quanto meno possibile gli autori, dunque non starò a pormi il problema se ciò che emerge dagli anime è conscio o inconscio, mi basta che emerga.
Cosa sto guardando. Che in una storia l’avversario sia qualcosa di intimo al protagonista, un suo lato oscuro, e quindi insieme anche qualcosa che gli è sconosciuto, straniero, non è certo una peculiarità dell’animazione robotica giapponese degli anni ’70. E tuttavia nell’animazione robotica giapponese degli anni ’70 questo fenomeno si mostra in modo più deciso mediante una manciata di temi tipici che con le loro variazioni e diramazioni caratterizzano una galassia di opere.
I tre topoi del mecha classico.
1) La condizione dei terrestri. Nelle grandi saghe di Matsumoto come Harlock, Yamato, Galaxy Express, i terrestri sono generalmente consapevoli di essere un popolo che viaggia nello spazio fra gli altri; diversamente, nell’animazione robotica i terrestri sono spesso un popolo ignaro, inerme e aggredito improvvisamente dal mistero.
2) L’eroe è chiamato in causa in prima persona in modi particolari e tipici, talvolta perché agisce una vendetta, ma soprattutto nella misura in cui si va qui codificando il tema dell’orfano-extraterrestre. L’eroe reca in sé un segno che è insieme di sradicamento e di predestinazione; la condizione di orfano rimanda, sul piano storico, alle conseguenze della Seconda guerra mondiale; mentre, sul piano psicologico e metafisico, l’oscurità sui propri natali o la perdita precoce del genitore sono un varco su un vuoto, su una zona di buio: l’eroe ha accesso in senso attivo alla zona di buio dalla quale emergono i mostri; i mostri vengono dal buio e aggrediscono tutti, ma tutte le vittime sono pressoché passive tranne l’eroe, che può scegliere di muoversi in senso inverso ai mostri, in virtù della sua familiarità con il varco e con il buio che sta al di là del varco. È in questo senso che la condizione di sradicato è strettamente legata alla condizione di extraterrestre, la quale rivela una radice sconosciuta e più autentica: l’eroe appartiene alla stessa dimensione dei mostri che combatte, ed è per questo che è predestinato a combatterli, e solo al termine di questo combattimento sarà diventato se stesso, e potrà essere un terrestre a tutti gli effetti. Combattere mostri e illuminare relativamente la zona al di là del varco sarà tecnicamente possibile grazie all’unione fra predestinazione dell’eroe e risorsa tecnologica robotica.
3) Il terzo motivo è l’unicità del super robot rispetto al real robot, l’unicità che gli conferisce il ruolo di guardiano del varco, mediatore fra mondi, avversario dei mostri, che contribuisce a definire le due fazioni in guerra come due mondi, due livelli, due diversi gradi del reale, in una relazione più verticale che orizzontale, in coerenza con quanto detto al punto (1).
Nel prossimo post vedremo come il mecha classico si muove contemporaneamente su due dimensioni: una storico-politica e una psico-teologica.