Pubblico, in una serie di post, l’intervento al Pesaro Comics & Games 2014.
(La prima parte, la seconda, la terza, la quarta, la quinta, la sesta e la settima)
L’altro me – l’avversario nell’animazione robotica classica
Dopo Nagai. L’era classica post-nagaiana è dominata dalle figure di Yoshiyuki Tomino e Tadao Nagahama con Saburo Yatsude, nome dietro il quale si cela uno staff misto Toei/Sunrise. Nagahama e Yatsude cominciano a collaborare con Combattler (1976), poi fanno Voltes (1977), Daimos (1978), e arrivano al capolavoro con Daltanious (1979). In Combattler gli avversari sono quasi più importanti dei protagonisti. Nagahama e Yatsude – mi riferirò sempre a entrambi perché le mie fonti sono contrastanti in merito all’attribuzione dell’effettiva paternità dei soggetti e dei concetti – sono affascinati da questa dimensione, trafficano con questa dimensione, con il risultato inevitabile che il loro universo dell’avversario sarà via via sempre più articolato, ma anche meno onirico e quindi meno oscuro, meno intrauterino di quello di Nagai, e si assesteranno lentamente ma inesorabilmente su quel (relativo) realismo che prevede la specularità dei due schieramenti contrapposti; eppure, proprio passando per questa strada, che apparentemente tende a riportare le due dimensioni dell’essere sullo stesso piano, annullando l’effetto abisso, nel 1979, con Daltanious, Nagahama e Yatsude produrranno un’opera impressionante nella quale il clima onirico evapora quasi del tutto perché il perturbante si afferma proprio con la specularità; ci torneremo.
In questo post andremo a campionare un momento particolare del percorso di Nagahama e Yatsude: due episodi contigui – il 25 e il 26 – e centrali di Combattler; li vedremo all’opera in quello che forse è il primo punto nevralgico della transizione tra il mitologico oscuro nagaiano e i Nagahama e Yatsude fantascientifici maturi.
Psico-teologia dell’abisso quotidiano. In Combattler, Nagahama e Yatsude lavorano brutalmente sul simbolico: l’universo dell’avversario è popolato di figure archetipiche articolate in dinamiche psico-teologiche di una complessità degna di un trattato gnostico. Abbiamo già incontrato Oreana e Malik: Malik (nome originale Garuda), comandante degli invasori, unica figura integralmente umanoide tra gli antagonisti degli eroi, è maltrattato da Oreana – una statua-computer che lui chiama Madre – e coadiuvato da tre gargoyle robotici, cioè tre mezzi busti che vivono attaccati alle pareti della base-montagna-castello posta sotto i piedi di Oreana, con la quale solo Malik ha contatti diretti tramite un ascensore. Una dei gargoyle, Marzia, è innamorata di Malik, ma Malik non la ricambia (anzi, nell’episodio 12 la prende anche a frustate) perché lei è appunto un cyborg – un cyborg non è una persona –, contemporaneamente Malik sembra particolarmente preso dal tentare di ricevere un riconoscimento dalla Madre, che è una statua-computer.
Mentre Malik si riposa, Marzia si sacrifica per evitare che Oreana lo cacci per via dei suoi numerosi fallimenti: Marzia trapianta il suo mezzo busto dentro un mostro meccanico a centauro (juu dorei,”mostri schiavi”, così si chiamano qui i mostri meccanici) e combatte contro gli eroi; durante la battaglia il suo centauro viene penetrato dal missile centrale di Combattler, al ralenti, in una delle scene più spudoratamente sessuali dell’animazione robotica e, tempo un altro paio di colpi a segno, il mezzo busto di Marzia viene sradicato dal supporto. Malik, svegliatosi e venuto a sapere del gesto di Marzia, corre a recuperarla, viene attaccato dal Combattler e Marzia riesce a compiere l’ultimo sforzo per salvarlo.
Malik torna alla base, dove si aggira con Marzia in fin di vita tra le braccia, in cerca del necessario per ripararla; è allora che scopre la stanza dei Malik, cioè delle sue copie – in una scena che a qualcuno richiamerà la scena delle copie di Rei Ayanami in Evangelion – e comprende di essere anche lui un robot; poco dopo, mentre vaga sconvolto, e recando con sé Marzia, ormai morta, si imbatte in un mostro meccanico che ha le sue stesse fattezze e la cui costruzione non è mai stata ultimata; lo chiama fratello, ci sale portandosi il cadavere di Marzia cui giura amore eterno (è più cosa un cyborg o un cadavere?), e distrugge Oreana che, dice Malik, non è più sua madre, per poi battersi in duello fino alla morte con il Combattler.
La trilogia romantica. Dopo questo meraviglioso delirio psico-teologico, la serie non finisce e tende ad assestarsi sullo schema dello scontro fra popoli, con un nuovo stato maggiore avversario, a dir la verità un po’ a metà strada fra la gerarchia Yamatai e il Trio Drombo. Terminato Combattler, Nagahama e Yatsude passano a Voltes V, splendida serie – devastata dal doppiaggio italiano – in cui è più forte il peso della dimensione politica nella forma dell’intrigo di palazzo e combinata all’immaginario del Settecento, e poi a Daimos, che è considerato il loro capolavoro, consegnando così alla storia quella che è conosciuta com Trilogia romantica, ma dotando il popolo avversario, nella seconda e nella terza serie, di un solo particolare archetipico perturbante: le corna in Voltes, le ali in Daimos. Ma ecco che quando, con Daltanious, siamo ormai lontanissimi dalle visioni da incubo della prima metà di Combattler, Nagahama e Yatsude inseriscono con la massima decisione le tematiche dell’invasore come altro me, dello specchio, del conflitto intrafamiliare e della definizione del soggetto, incrociandole fra loro in maniera potentissima, ma spogliando l’opera di ogni figura onirica e spostando tutto nella immediata definizione dei personaggi e dei loro rapporti. Ci torniamo tra qualche post.
L’umanoide come falso. Da questa breve ricognizione sul mondo di Combattler, si ricava anche un altro tema, cui si era già accennato. Si tratta di un altro livello di irruzione della tecnica, non nasce e non muore nelle serie robotiche, vive come filone parallelo e ha una sua evoluzione, ma nelle serie robotiche finisce spesso per essere coinvolto: è quello degli umanoidi la cui nascita prevede un intervento tecnico o sul cui corso biologico si è intervenuti tecnicamente – dagli androidi completamente meccanici, ai cyborg, fino ai biodroidi, cioè ai cloni integralmente biologici. Diversamente dal robot guardiano del varco, il cui statuto non è ambiguo e che vive di una reciproca servitù con l’eroe, l’umanoide tecnico gode di uno status tutt’altro che divino, anzi meno che umano, e sulla sua umanità, sulla sua anima, diremmo, o sul suo cuore, si avanzano dubbi. In altri termini: per la maggior parte dei personaggi che popolano gli anime, l’umanoide tecnico non è una persona. La differenza la fa dunque la trasparenza, la corrispondenza tra essere e apparire, è questo ciò che stabilisce il valore: è sospetto chi può essere confuso con ciò che non è, ciò che si presenta per qualcos’altro. L’idea che in Daitarn Banjo possa essere un meganoide non è semplicemente un trucco sadico di Tomino: è una macchinazione narrativa che ha una sua ragione buonissima, ragione che apparirà chiara quando di Daitarn ci occuperemo. Ciò che ci interessa ora, però, è che il trucco attecchisce perché chi segue Daitarn è coinvolto in questo clima di sospetto prodotto dal manicheismo esasperato e parodistico tra umani come validi in se stessi e meganoidi come portatori di disvalore in se stessi. Aleggia lo spettro della bambola: è in gioco non solo il tema dei diritti e dello statuto ontologico delle emozioni delle creature non umane – da Kyashan al Maggiore Kusanagi a Rei Ayanami – ma anche il terrore degli umani di non essere altro che macchine biologiche determinate dalla loro neurofisiologia e da essa ingannate e convinte di provare sentimenti e produrre valore.
Essere un androide, o avere innesti meccanici, o persino essere un clone crea serissimi problemi di legittimità, e considerato che l’animazione robotica si sta via via affinando e incentrando sempre più consapevolmente sul processo di soggettivazione dell’eroe rispetto al proprio abisso, e che il processo di soggettivazione coinvolge anche il riconoscimento altrui della propria umanità, è chiara la portata dell’innesto del sotto-tema dell’umanoide tecnico nell’animazione robotica.
Nel prossimo post il capolavoro di Yoshiyuki Tomino: Zambot 3.