Pubblico, in una serie di post, l’intervento al Pesaro Comics & Games 2014.
(La prima parte, la seconda, la terza, la quarta, la quinta, la sesta, la settima e l’ottava)
L’altro me – l’avversario nell’animazione robotica classica
Tomino. Al polo opposto rispetto al Combattler di Nagahama–Yatsude sta Yoshiyuki Tomino. Tomino culminerà nel realismo vero e proprio, e lo farà passando per la riduzione all’osso, rendendo tributo più al logos che al mythos. La profondità abissale dei demoni di Nagai e delle figure archetipiche di Nagahama-Yatsude si allontana, sostituita da un sempre maggiore grado di realismo, di crudezza e di sublimazione filosofica; passando attraverso il poema della guerra e dello spirito di Zambot 3 (1977) e la parodia sociologica di Daitarn 3(1978), Tomino esaurisce l’animazione super robotica abissale per eccesso di riduzione all’essenziale; infine cadrà completamente nel realismo creando Mobile Suite Gundam (1979), il primo real robot (ma reintroducendo la dimensione psichica con i newtype).
Zambot. È il robot formato dall’unione di tre moduli, pilotati dal dodicenne Kappei Jin e dai suoi cugini, la quattordicenne Keiko Kamikita e il quindicenne Uchuta Kamie; i ragazzi sono nati sulla Terra, ma Jin, Kamikita e Kamie provengono da un pianeta in passato distrutto dai Gaizok, secondo uno schema che riprende solo metà del topos dell’orfano extraterrestre, mantenendo alle spalle dei ragazzi una famiglia numerosa e calorosa, una comunità di affetti e di condivisione composta da persone genuine e per bene. I Jin-Kamie-Kamikita, con la loro nave, il King Biar, anch’essa formata da tre navi, e lo Zambot, difendono la Terra dall’attacco Gaizok mentre sono accusati da parecchi terrestri di essere la causa della guerra, quando i Jin sanno benissimo che i Gaizok non hanno certo attaccato la Terra per loro.
Killer The Butcher. È il luogotenente Gaizok per l’annientamento della Terra. Personaggio dalla psicologia raggelante che Tomino ci mostra sempre nell’insopportabile sintesi di crudeltà, edonismo kitsch e ridicolaggine; nell’episodio 18 lo vediamo sulla Bandok, la nave madre dei Gaizok, impegnato come frontman di una rock band di soldataglia, appena dopo aver dato l’ordine di rinchiudere centinaia di terrestri nei campi, impiantargli bombe in corpo, cancellargli la memoria e lasciarli liberi in modo che esplodano a caso; in quello stesso episodio questa sorte toccherà anche ad Aki, la ragazzina di cui Kappei è innamorato.
Penultimo episodio. Nello spazio – topos dell’irruzione nell’abisso – lo Zambot e l’unica nave di famiglia superstite, il Bear 1, affrontano Butcher chiuso nella testa della Bandok, apparentemente tutto ciò che rimane della nave. L’attacco lunare di Zambot non è risolutivo: per distruggere il veicolo di Butcher, Zambot deve usare un cannone a ioni, un’arma “real”. Questo particolare non è di poco conto: se al grado zero della narrazione è una conseguenza della scarsa riserva energetica lunare dello Zambot, che avrà enormi ripercussioni sul finale, sul piano della dimensione psico-teologica è né più né meno che l’abbandono degli eroi da parte del nume, del principio superiore lunare, ciò che garantiva la dissoluzione delle illusioni: da qui in poi Tomino trascina di forza la dimensione psico-teologica dal piano dell’allegoria a quello della diegesi, e gli ultimi minuti della serie si risolvono in un continuo rovesciamento di status ontologico tra reale e chimere: lungi dal sostituire l’attacco lunare, l’uso del cannone a ioni contro la Bandok è l’urto tra due mondi che apre l’ultima danza dell’abisso, e nell’ultima danza dell’abisso, quando illusione e realtà si mescolano e si scambiano di ruolo vorticosamente, quando le prospettive si ribaltano, ecco che si muore ancora, ma non sono i Gaizok a ucciderti.
Dalla carcassa del veicolo nemico emerge un Butcher ferito, morente. Gli eroi e l’avversario sono faccia a faccia. Dal corpo di Butcher escono molle e bulloni: è una creatura artificiale. Da questo momento in poi Tomino e il suo staff insistono sulla natura di giocattolo di Butcher, portandola all’estremo nella sequenza dell’esplosione del suo corpo in seguito ai danni inflitti dal cannone a ioni.
Ma prima che questo avvenga, da una zona ormai irrimediabilmente ibrida, che non è illusione né realtà, né vita né morte, un Butcher sensibilmente più serio del solito strappa alla dissoluzione il tempo per domandare agli eroi:
Posso sapere perché avete fatto quello che avete fatto? Chi ve lo ha chiesto? Qualcuno vi ha ringraziato per caso? Qualcuno ha combattuto insieme a voi? E in ogni caso – conclude – prima o poi i terrestri si distruggeranno da soli.
Qui c’è chiaramente un tentativo di vendetta, di far male, ma, anche se in modo polemico, veramente Butcher pone il problema; di fronte a tutto ciò Kappei vorrebbe parlare ma non ce la fa, balbetta:
Ma… veramente… la pace sulla Terra… Io sono nato e cresciuto sulla Terra… vabbè, stai zitto, basta.
Kappei è esausto: ha combattuto una guerra, ha visto morire i suoi cari, è arrivato alla fine e si trova davanti un automa già morto che gli pone domande alle quali non ha né la lucidità né forse nemmeno le idee per rispondere. Resta così, mentre Butcher esplode come esploderebbe un pupazzo a molla.
Sembra tutto finito ma ecco che compare il resto dello scafo della Bandok.
Ultimo episodio. Chiunque abiti ancora lo scafo della Bandok, sferra un attacco onirico con tinte da manga horror: la Bandok esplode da sola, portando allo scoperto il gigantesco occhio che negli episodi precedenti lo spettatore ha visto impartire ordini a Butcher.
Si materializza un mostro dalle sembianze di pipistrello, e di certo non è meccanico – lo Zambot gli passa attraverso –, aggredisce gli eroi con un raggio che li trascina in uno scenario da incubo: lo spazio e le stelle spariscono, gli eroi si ritrovano in una sorta di antro organico, Zambot è a testa in giù con i piedi su un soffitto; lo Zambot e il Biar 1 vengono attaccati da due mostri; è Uchuta che, risvegliato dal dolore per una ferita, riesce a vedere la sagoma del Biar 1 dietro quella del mostro, e a rendersi conto che Zambot e Biar 1 si stanno attaccando a vicenda; sfuggito all’illusione, Uchuta dà indicazioni a Kappei su dove lanciare i missili per colpire la Bandok.
Ed ecco che Zambot e Biar 1 si ritrovano di nuovo nello spazio davanti alla nave nemica, che non era mai esplosa.
Riprende lo scontro, ma lo Zambot, privo di energia lunare, ne esce con gli arti distrutti: i moduli di Uchuta e Keiko irrimediabilmente danneggiati. Uchuta esce dalla combinazione. Kappei protesta, ma i cugini hanno già deciso: si schianteranno con i loro moduli contro la Bandok.
Sconvolto, sfinito, furioso, Kappei riesce a penetrare con il suo modulo in forma di robot, lo Zambo-Ace, nella Bandok, attraverso il varco aperto da Zam-Base e Zam-Bull. Si trova in un ambiente biomeccanico, lisergico, davanti a un cervello gigante, ormai irreparabilmente danneggiato e destinato a esplodere:
Sei tu quello che chiamiamo Gaizok? – domanda.
Io sono il Computer Bambola Numero 8 – risponde il cervello, – un addetto alla disinfestazione delle forme di vita che sviluppano un’anima malvagia, distruggono la silenziosa armonia dell’universo e ne sovvertono il delicato equilibrio.
Dopodiché CBN8 ripropone le stesse domande di Butcher. E Kappei è, a tratti, di nuovo ammutolito.
Il dialogo si chiuderà con l’esplosione di CBN8 e della Bandok; il modulo di Kappei sarà scaraventato sulla Terra.
La dimensione psico-teologica. Ciò che accade in queste ultime due puntate è fondamentale e si dispone su diverse dimensioni. Quella che ho cercato di seguire in questo post è una dimensione psico-teologica immediatamente rappresentata in quanto tale nel rapporto promiscuo tra reale e illusione, che investe completamente la narrazione generando una serie di scatole cinesi e di rovesciamenti ontologici: i Gaizok, che erano concreti e sanguinari come solo le persone sanno essere, si rivelano bambole, in se stesse inermi, sono già morti e ancora parlano, e i loro discorsi sono vuoti, impersonali, circolari; ed è questo l’orizzonte ultimo: il vuoto. Al suo interno i Gaizok sono ancora in grado di generare illusioni, che non uccidono direttamente ma generano lo scenario idoneo a far sì che gli eroi si uccidano a vicenda, illusioni che in assenza del principio lunare possono essere dissipate solo dal dolore: a uscire dall’inganno è Uchuta, grazie alla ferita riportata in seguito allo scontro con i suoi cari trasfigurati in mostro dalla magia Gaizok. È sempre Uchuta – il secondo pilota, il doppio con i piedi per terra dell’eroe – a dare il via all’azione finale, immolandosi assieme a Keiko. L’abisso senza luna è un luogo dove la violenza ha il volto impersonale della macchina che parla con una logica ferrea ma stupida, e ci spinge a prendere le armi contro chi amiamo; delle illusioni ci si libera se colpiti dal dolore, dall’inferno si esce solo decidendo della propria vita come soggetti autonomi, e l’ultimo insegnamento della luna è che non c’è nessuna luna.
Altre dimensioni. Un altro rovesciamento significativo lo troveremo nel penultimo episodio di Daitarn, che è a sua volta uno Zambot rovesciato. Nel prossimo post esploreremo la logica Gaizok e una dimensione più schiettamente psico-filosofica di Zambot: l’evoluzione della psico-teologia tradizionale in una rappresentazione cerebralmente perturbante dai simboli ad azione subdola e immediata che ruota intorno alla figura dell’intelligenza artificiale e coinvolge le suggestioni sotterranee ad essa collegate: la questione del determinismo e della responsabilità, la questione dello statuto del soggetto; il rapporto tra impersonalità e male; il terrore del vuoto e il rapporto tra il soggetto e il vuoto. C’è anche, sotto tutto questo, la dimensione storico-politica, e le si rovescia fragorosamente addosso buona parte di ciò che emerge dalle altre due, sconvolgendone qualsiasi pretesa di linearità, ribaltandone i simboli, mescolandone i riferimenti, in cerca non tanto dei cattivi, quanto dell’essenza del male.