Sui limiti generati da una cultura pop totalitaria si può e si deve discutere, e in merito a ciò rimando allo splendido L’assedio del presente di Claudio Giunta. Tuttavia la serialità ha prodotto opere notevoli. Per la maggior parte dei rappresentanti della mia generazione Goldrake è il più bel cartone di robottoni di tutti i tempi e Ken il guerriero è il più bel cartone di bastonate di tutti i tempi, ma solo per pochi, forse pochissimi, la saga di Mazinga (della quale Grendizer è capitolo) rappresenta una delle pietre miliari della contestazione del vecchio Giappone militarista da parte dei giovani disegnatori giapponesi attivi negli anni ’70, contestazione che metteva in gioco concetti come l’ecologia e in generale il rapporto con il pianeta e con gli altri popoli del pianeta, la bellezza e la tragedia della relazione uomo-macchina, la lunga elaborazione del lutto atomico, il dubbio su come comportarsi davanti alle manifestazioni del male, il diritto di proprietà sulla terra, il problema dell’ideologia, dell’inibizione del sentire, del fascismo. Solo per pochi Hokuto no Ken è un’opera sul sacrificio, sul fato e sulla capacità di affidarsi alla sua corrente, su come si genera la cattiveria umana, su cosa sia davvero un messia e cosa ci si aspetta che faccia e cosa invece fa davvero, su quella terza possibilità, che sta tra il non agire e l’agire lasciando che l’abitudine anestetizzi, e che consiste nell’agire continuando a sentire, su cosa manchi a un dominatore per essere la creatura più evoluta del mondo e sul fatto che ciò che manca è la rinuncia a essere un dominatore.
Si dirà che non tutti possono percepire tutto. Ma sicuramente sono ancora meno le persone che non percepiscono quando la disposizione è il non prendere sul serio. Si può pensare che il passaggio dell’adolescenza implichi necessariamente la presa di distanza da ciò che non è verosimile. Ma ci sarebbe da chiedersi se i prodotti per ragazzi dei nostri genitori e dei nostri nonni abbiano subito il medesimo trattamento delegittimante da parte degli adulti prima e degli stessi ragazzi di allora divenuti adulti poi. Ancora una volta, ci si può domandare se la stessa cultura pop non sia in sé stessa foriera di diversi mali, ma anche se una generazione che ha una sola cultura condivisa (due, se ci mettiamo la scuola elementare, ma non sono sicuro che sia stata così pervasiva) ed è scoraggiata ad approfondirla, a interrogarsi su significato e contesto degli archetipi di cui si è comunque nutrita, si trovi in una buona condizione.
In ogni caso torniamo al primo e al secondo punto: cosa accade quando un’intera generazione si è formata su un certo tipo di prodotto culturale e a quella generazione la società impone di vergognarsi di quella formazione? Accade che il non prendere sul serio diventa il non prendersi sul serio.
“Noi trentenni” non siamo danneggiati nel cervello, come sostiene Omar Fantini, perché ci saremmo formati su opere idiote o che non rispondono a una mentalità pratica o che sono piene di negri, omosessuali e drogati. “Noi trentenni” siamo danneggiati nel cervello nella misura in cui accettiamo passivamente che i nostri immaginari – e con essi, soprattutto, la nostra tensione a immaginare, ma a questo accennerò in altra parte – vengano ridicolizzati e delegittimati applicando ad essi parametri irragionevoli; siamo danneggiati nella misura in cui aderiamo colpevolmente, come fa Omar Fantini, per davvero o per finta non ci interessa, al punto di vista e al giudizio del babbo-da-bar. Una delle cose che possono succedere, quando accettiamo questo, è che un servo del peggior potere di questo mondo – il potere che annichilisce la persona, distrugge la volontà di immaginare e dissolve la logica del linguaggio – salga su un palco e dica ai trentenni di vergognarsi del loro immaginario invece che attingervi per essere persone e costruire un mondo; che dica, in definitiva, alle altre generazioni di non avere fiducia nei trentenni e dica a un trentenne di non avere fiducia in se stesso, avendo egli il cervello irrimediabilmente danneggiato.
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