Il breve pezzo letto alla maratona di chiusura del PerepePè – che è poi una versione modificata di questo. Gli altri tre pezzi letti al PerepePè sono questo, questo e questo.
Il software che usavamo al call center per effettuare le chiamate girava su windows 98, e aveva la faccia, nel quarto del monitor in alto a sinistra. La faccia, che era fatta di quadrati molto grossi, aveva tre espressioni: in attesa, risposta, e numero non funzionante. La faccia in attesa era apatica e gialla; la faccia da risposta era verde, aveva la bocca aperta, sorridente, come chi stia parlando con un amico caro; generava una certa dissonanza cognitiva quando chi aveva risposto al telefono ti stava augurando la morte; la faccia del numero non funzionante era rossa e malinconica.
Dato che lavoravamo cliccando sui numeri di un database estratto dall’elenco telefonico del 1996, ed era il 2007, nostro compito era anche aggiornare il database segnalando quali di loro non fossero più in vita. Gli esercizi, dico, le ditte, cioè spesso gli uomini-ditta, titolari di ex imprese casalinghe, vetrerie nella rimessa, assemblaggi di pc nello scantinato. E in effetti accadeva spesso che la faccia del software diventasse verde e sorridente, e rispondessero le mogli degli uomini-ditta: esperte nel rispondere al telefono: «No, non c’è Gaetano. Dov’è? È al campo santo», espressione che segnala la tendenza della metafisica locale ad attribuire primato al corpo nell’individuare la persona.
Altre volte il computer componeva numeri scomparsi, numeri di cubi di cemento vivo, privi di piastrelle, gettati nei cerchi più esterni della città, tirati su dove prima c’era un rigagnolo o un acquitrino, progetti lanciati dal dire al fare nella sbornia del verbo crederci e poi falliti dopo un mese, loculi di se stessi sparsi tra l’erba alta, i terrapieni, i palazzi eternamente in costruzione, strisce di cerata appese a cancelli elettrici: il segnale correva sulle colline, oltre le serre, i camini e le galline, per trovare solamente i locali ormai deserti, e allora mi tornava indietro in un ansioso tu-tu-tu, numero non funzionante, e sul monitor la faccia fatta di quadrati diventava rossa e assumeva lo sguardo malinconico. Rimanevo a guardarla, con il tu-tu-tu ansioso nell’auricolare e immaginavo dove il segnale stesse cercando di entrare: spazi semivuoti, magari una mensola o una scrivania su cui poggiavano, abbandonati, mac classic o vecchi ibm che se accesi avrebbero cominciato a far girare uno windows 3.1 del ‘92, vasche di floppy disk da 3½, vecchie stampanti a getto di inchiostro, basi di cordless orfane dei cordless.
Ma c’erano anche i telefoni che in mancanza di una risposta al quarto squillo attivavano altri telefoni: solo che per il software del call center l’attivazione di un secondo telefono equivaleva a una risposta, e così la faccia del software fatta di quadrati molto grossi diveniva verde e apriva la bocca felice, ma invece di una voce che diceva «pronto?», nell’auricolare sentivo squillare un nuovo telefono, un suono d’attesa distintamente diverso dal primo, la traduzione, che il primo telefono faceva per me, della voce del secondo telefono, un suono più allegro e vetero-elettronico, ma forse era l’effetto della faccia verde e sorridente; in questi casi i segnali potevano diventare tre, quattro, cinque segnali diversi uno dopo l’altro: erano i telefoni che si attivavano l’uno con l’altro, da un ambiente all’altro, in cerca del loro padrone; volando con loro esploravo quegli spazi silenziosi dove risuonava solo quello squillo senza risposta, guardavo un telaio o un tecnigrafo abbandonati alla luce di una finestra quadrata, o una vecchia pialla bicombinata che dormiva nella penombra di un garage, su di lei un taglio di sole lasciava danzare la polvere. Quando tornavo dalle mie esplorazioni, il software mi guardava ancora con la faccia verde e allegra della risposta. Era ora di chiudere la chiamata.
“Attivo” era mio compito segnare nel database in questi casi, anche se nessuno avrebbe mai risposto. “Defunto”, segnavo in tutti gli altri.