Stamane a Bologna è partito il future film festival. Alle undici di ‘sta mattina sono andato a vedermi La Rinascita, il discusso film tratto dalla mitica serie Kyashan. Il film verrà riproiettato questa stessa sera alle 23.00 al Capitol. Tecnicamente degustibus: se vi piacciono i video dei Prodigy, i videogiochi ultramoderni, i combattimenti dove si capisce poco e la paccottiglia techno-gotico-metallara, bé, allora dovreste andarci assolutamente. Per quel che mi riguarda, le parti migliori sono proprio quelle a musica sparata, dove l’effetto videoclip è almeno portato a estreme conseguenze. Identici restano i nomi dei personaggi e il costume di Kyashan, privo però (simbolicamente?) del casco, che viene distrutto da un’esplosione poco prima della rinascita del nostro. A volte, come nel caso della rivisitazione dei cupissimi scenari da seconda guerra mondiale, l’impatto della tecnologia disponibile restituisce vita all’estetica dell’originale trascinandola al limite; e chi come me ha adorato il cartone apprezzerà soprattutto l’unico combattimento revival tra Kyashan e un plotone di robot, realizzato dannatamente bene, tanto che viene da domandarsi se non era il caso di sfruttare le nuove potenzialità tecniche per girare un remake fedele all’originale. E invece no: il film è volontariamente l’opposto della serie originale: là Tetsuya si sacrificava di sua sponte e rinunciava alla propria umanità facendo di sé l’androide Kyashan, l’unico in grado di combattere gli altri androidi, quelli nazisti, decisi a sterminare il genere umano; diversamente nel film, dove Tetsuya muore in guerra e viene fatto rinascere forzatamente dal padre grazie alla biotecnologia; ancora, nella serie originale gli androidi erano indefinitamente più potenti e soprattutto più cattivi degli umani, i quali sviluppavano al massimo una forma di razzismo nei confronti dei robot (razzismo del quale Kyashan era spesso vittima); nella nuova versione tutti sono fascisti e guerrafondai, tutti sono cattivissimi e potentissimi, e i neo-nati non sono androidi bensì cadaveri rimaneggiati dall’aspetto e dalle motivazioni decisamente umani. Kyashan si risveglia in un mondo nel quale non voleva tornare, con il cuore reso impuro dalla guerra dove ha ucciso ed è stato ucciso, disorientato e incapace di prendere le difese di qualunque parte in causa, se non di quei villaggi i cui abitanti vengono sterminati (dopo essere stati bollati come “terroristi”) dai soldati nevrotici che eseguono entusiasticamente gli ordini più brutali e dei quali lui ha fatto parte nella sua prima vita. E la vita, anzi, la negazione del significato della vita è l’oggetto di critica preferito dagli autori: gli uomini uccidono e rianimano con una facilità di mezzi e una leggerezza d’animo che ha dell’incredibile, mentre è proprio l’unicità della vita a renderla densa di significato e di rispetto, e, circolarmente, è la comprensione di tale unicità che inibisce l’assassinio: in pratica, la tendenza alla rianimazione conduce alla tendenza a uccidere. La sentenza morale finale del film è di un pacifismo psicologicamente violentissimo: esistere genera il male naturale, quello degli altri più che quello interiore, cioè: esistendo non possiamo che fare male agli altri, quindi non-esistere o smettere-di-esistere è la redenzione, o almeno questo è quello che sono riuscito a evincere dal complesso, dato che a tre-quarti del film i sottotitoli sono andati a farsi benedire per riprendere pochi minuti prima del finale, e i dialoghi probabilmente più importanti – compreso il lungo monologo del supercattivo – ce li siamo figurati ascoltando il giapponese. Il pubblico è stato molto comprensivo: se fossi stato un fanatico che ha atteso per più di un anno questa anteprima e me l’avessero seccata così dopo aver intascato i miei sette euri non sarei stato tanto accondiscendente. Auguro agli spettatori delle 23.00 di incorrere in più felice circostanza.