Prima o poi mi deciderò a compilare e pubblicare un elenco delle fallacie e delle mosse retoriche subdole che si stanno propagando in Italia in questi anni in modo massiccio e preoccupante: basti pensare all’uso diffusissimo e spensierato dell’argomento a uomo o del processo alle intenzioni. Temo abbiamo a che fare con la prole deforme nata dalle Nozze di Relativismo e Televisione: si tratta di fallacie e mosse che il loro stesso substrato ideologico incorona come uniche forme retoriche moralmente legittime; il medesimo substrato ideologico, intanto, rovescia senza pietà argomenti e dimostrazioni nel cestino delle dialettiche immorali; tutto ciò sta trasformando una parte della popolazione in troll (nel senso internautico) e l’altra parte in soggetti schizofrenici costretti a interrogarsi e rispondersi da soli; se gli schizofrenici che si interrogano e si rispondono da soli mi fanno venire in mente Socrate in Gorgia 506c-507c, i troll mi fanno venire in mente – più che sofisti come Gorgia, Callicle o Polo – i puffi neri, o i film di zombie dove i virus si impossessano dei cadaveri; e credo sia significativo che, nella filmografia sugli zombie, gli zombie si siano fatti via via sempre più rapidi e aggressivi.
Dice Gianluca Solla che il potere ubuesco «ha addestrato un piccolo esercito di professionisti della menzogna, abituati a interrompere sistematicamente ogni ragionamento, facendo passare gli altri per pesanti e indigeribili intellettuali e se stessi per brillanti conversatori, quando invece sono solo squadristi mediatici». Ma gli squadristi mediatici di cui parla Solla credo siano perfettamente coscienti di quello che stanno facendo, mentre ho il tremendo sospetto che le persone comuni che innalzano l’argomento a uomo a non plus ultra della dialettica e hanno orrore del sillogismo siano più parlate che parlanti. E anche su questo, prima o poi, vorrei tornare.
Ma non oggi: oggi sento l’insopprimibile bisogno di scrivere un post incentrato su una specifica tecnica retorica che mi manda completamente in bestia, e della quale fa uso un numero incredibile di persone.
La tecnica dello schiacciapatate
La tecnica che chiamo tecnica dello schiacciapatate consiste di due mosse, ed è fatta così:
1. La prima mossa della tecnica dello schiacciapatate consiste, da parte di un interlocutore B, nell’affermare qualcosa o nell’attaccare l’affermazione fatta da un precedente interlocutore A o nell’attaccare lo stesso interlocutore A (e in questo caso, dunque, c’è anche l’aggravante dell’argomento a uomo), solo che questa affermazione fatta da B o questo attacco portato da B ad A poggiano su un’assunzione indebita, un presupposto implicito che dovrebbe essere dimostrato; oppure l’assunzione è legittima ed è A che ritiene che sia indebita, o non necessariamente condivisibile, ma come vedremo non è questo il punto perché l’immoralità della tecnica dello schiacciapatate sta soprattutto nella seconda mossa, mossa che lascia emergere e impone il substrato ideologico.
– Dunque che fa A? Non può fare altro che smontare il presupposto implicito dell’attacco di B, e per farlo è costretto a scendere nell’analisi (l’analisi del significato delle parole usate da B, che magari è ambiguo, o l’analisi della stessa strategia retorica messa in atto da B).
2. La seconda mossa della tecnica dello schiacciapatate messa in atto da B consiste nel dichiarare non valida l’analisi fatta da A, ma non in quanto eventualmente errata, bensì in quanto analisi. E qui si nasconde la bestia.
La seconda mossa della tecnica dello schiacciapatate
La seconda mossa della tecnica dello schiacciapatate, ovvero il dichiarare non valida l’analisi in quanto analisi, può essere messa in atto in modi diversi. Parlerò di due modi di mettere in atto la seconda mossa della tecnica dello schiacciapatate, ma non escludo che ve ne siano altri, anche se sospetto che siano varianti di questi.
Smetti di filosofeggiare
Per esempio si può screditare un’analisi in quanto analisi secondo la prospettiva della reverenza/disprezzo, chiamando l’analisi “intellettualismo” o addirittura “filosofia”, il che denota come a essere sanzionata negativamente non sia solo un’ipotetica degenerazione dell’uso della ragione, ma anche l’uso stesso della ragione: fare un ragionamento e usare l’intelletto sono cose ignobili; oppure si lascia intendere così che vi sia un confine preciso oltre il quale un ragionamento – che fino a prova contraria è anche ciò che fa B quando formula un pensiero, per quanto balordo – “degenera” in “filosofia” e oltre il quale l’uso dell’intelletto “degenera” in “intellettualismo” (sono costretto a constatare che, per qualche motivo sconosciuto ma sempre attivo, questo confine coincide con il punto in cui B termina la sua battuta e A prende la parola).
A volte B è un genio, per esempio quando, invece che bollare l’analisi come “filosofia” o “intellettualismo”, la definisce “sofisma”, generando la surreale situazione in cui la prima mossa di B è una fallacia o un sofisma, la mossa di A è la confutazione della fallacia o del sofisma, e la seconda mossa di B è chiamare “sofisma” la confutazione della fallacia o del sofisma prodotto da A. Si può giungere anche a vette di neoclassicismo impazzito: B dice “Non ci sono verità assolute”, A risponde che anche quella or ora enunciata da B aspira a essere una verità, e B risponde “Questo è un sofisma”.
Sei convinto di possedere la verità
Un altro modo che B ha per screditare l’analisi è accusare A di “voler” avere ragione; a questo punto è inutile per A appellarsi a evidenze del tipo “se P allora Q” o “3+9=12” perché in ogni caso B dirà che A non ha la verità o la logica o la matematica o la realtà esterna in tasca, del tutto incurante B che è la verità o la logica o la matematica o la realtà esterna a condannarlo, e non la volontà di A, e anzi sottintendendo B, in combutta con la propria ideologia relativista, una qualche arroganza di A nel suo pervicace credere di avere organi capaci di altro dal solipsismo e una mente in grado di dedurre.
Anche qui ci sono casi interessanti: A può portare prove evidentissime – per esempio, in un contesto scritto, frasi evidentemente contraddittorie di B – prove che B, felicissimo, trasformerà in prove della violenza e dell’immoralità di A, il quale, dirà B, con quelle prove “vuole imporre la sua verità”. Una variante spettacolarissima, poi, è quella che chiamo “Contro il dizionario”: B dice, per esempio, “Io odio i ne*ri”, A mette a verbale che B è un razzista e B risponde “Come ti permetti di darmi del razzista”, come se fosse A a dare del razzista a B e non il dizionario.
Il modo di procedere di B richiama alla mente ciò che Mario Perniola dice della comunicazione come entità impersonale: «può facilmente ritorcere l’accusa [di fascismo], tacciando l’avversario di assolutismo, dogmatismo, totalitarismo, intolleranza e… fascismo!».
Il male è bene
In ogni caso, come dicevo, è la seconda mossa della tecnica dello schiacciapatate ciò che rende la tecnica realmente immorale; la prima mossa, infatti, può essere un mero errore di B, o può essere un errore di A lo scorgervi un postulato indebito; non c’è niente di male: siamo umani, si discute; ma la seconda mossa dice che discutere e mettersi a cercare gli errori è male, cioè che fare il bene è male, e che essere stupidi e/o superficiali è bene, cioè che il male è bene. Nella democrazia ideale di B, ognuno dice ciò che preferisce, sì, ma a patto che a nessuno si chieda ragione di ciò che ha detto.
(C’è anche GNAP! 2 -l’ira di Troll)