C’era un pezzo molto bello e vero di Ferdinando Camon, intitolato Noi e le rivoluzioni arabe, che purtroppo non trovo più in rete.
Devo dire che lì per lì la chiusa mi aveva lasciato perplesso:
Ma chi ha rivelato ai popoli arabi, che adesso si agitano, le storture del loro sistema politico? Gli emigranti che tornano, le tv straniere, la rete di Internet, l’informazione estera. Il modo in cui ci vediamo noi, da soli, non ci dice come siamo. Dobbiamo capire come ci vedono gli stranieri. I loro giornali, le loro tv, i loro politici, i loro inviati, i loro scrittori. Ci serve uno specchio, per vederci in faccia. E se vedessimo la nostra faccia come la vedono gli stranieri, cercheremmo subito di cambiarla.
Però, per essere sicuri che “cercheremmo subito di cambiarla”, bisognerebbe sapere cosa leggerci, in quel “come la vedono”, se la semplice visione o anche la sensibilità e il pensiero che interpretano la visione.
Per esempio, Daniela Santanchè e io potremmo anche guardare la stessa foto, ma non è detto che reagiremmo allo stesso modo: ciò che può disgustare me può soddisfare lei o lasciarla indifferente, e viceversa.
Mi sembra che noi italiani siamo portati a sentirci italiani in due modi combinati: mi sembra che reagiamo con aggressività a qualsiasi giudizio proveniente dall’esterno, e che tendiamo ad attribuire un valore in sé all’essere italiani.
Il fatto di reagire a ogni giudizio con aggressività è peraltro pratica ormai diffusa anche tra italiani: qua ormai non si fa altro che sventolare patenti di moralismo o dare lezioni di scetticismo etico a chiunque prenda sul serio l’esperienza morale. E poi reagiamo con aggressività alle critiche, in piena sindrome da assedio, anche se parlano gli italiani all’estero. “Ma perché vengono visti come radical chic!” mi dice un amico. “No: vengono visti come radical chic perché!” rispondo.
Fino a poco tempo fa – ora non lo noto più –, nei telegiornali, c’erano le notizie del “pensate un po’”: i Giapponesi, pensate un po’, hanno condotto una ricerca per stabilire le giuste dimensioni delle gabbie per criceti; i Canadesi, pensate un po’, fanno bagni di gruppo nei loro laghi gelidi; i Giamaicani, pensate un po’, credono che Haile Selassie sia Dio: la reazione, sotto forma di dileggio, si estendeva persino all’esistenza stessa di altri mondi.
D’altro canto a me pare che attribuiamo all’essere italiani un valore in sé, come se tutta la gloriosa nostra storia, e il genio italico riconosciuto da coloro che riconoscono un genio italico, e l’essere – si dice, e ci diciamo – amati non si capisce mai bene se come menti o cuori o macchiette, e poi la moda, il gusto per i suv, Mazzini, la nazionale di calcio, Toto Cutugno e il tricolore svuotato di Ciampi: come se tutto ciò si fosse concentrato e ridotto in un sasso verbale, l’affermazione “sono italiano”, e questa in sé non solo bastasse, non solo fosse autosufficiente, ma fosse in tenuta antisommossa. “Adesso vi faccio vedere come muore un italiano!”
Insomma, ho la sensazione che molti di noi siano fieri delle “storture” del nostro sistema politico e che ringhierebbero di fronte a qualsiasi critica, addirittura a qualsiasi analisi.
Credo che dovremmo davvero vederci come ci vedono gli altri, nel senso che dovremmo coinvolgere nell’atto della visione il corpo e la mente degli altri, affinché fosse vero quello che dice Camon.
E anche fosse così, Camon scrive che “il modo in cui ci vediamo noi, da soli, non ci dice come siamo. Dobbiamo capire come ci vedono gli stranieri. I loro giornali, le loro tv, i loro politici, i loro inviati, i loro scrittori. Ci serve uno specchio, per vederci in faccia”, e così dicendo mi pare assuma che gli stranieri ci vedano o possano vederci per come siamo. Ma quali stranieri ci vedono per come siamo? “Non v’è alcuna meraviglia, se facendo questo tu compi azione gradita a Zeus, ma odiosa a Crono e Urano, cara a Efesto, ma in odio a Era” dice Socrate a Eutifrone. A chi devo credere?
E certo uno sguardo dissenziente, anche se non mi dice come sono, può dirmi come sono secondo qualcun altro, e certo può generare vergogna, ma la vergogna che si prova dinnanzi allo sguardo altrui la si può provare anche se la scala di valori dell’altro non corrisponde al vero: si può provare vergogna anche di fronte a un gruppo di ladri perché non si ha avuto il coraggio di rubare, a un gruppo di assassini perché non si ha avuto il coraggio di uccidere. Non intendo dire che ci adegueremmo a una scala di valori completamente sballata: voglio solo dire che uno sguardo altrui su un’infrazione nostra rispetto a un sistema di valore altrui, se anche generasse in in noi vergogna, non ci direbbe niente sulla giustezza, la bontà, la verità di quel sistema di valori altrui: la vergogna culturale è un deterrente, come dire, orizzontale, arbitrario, relativo, senza certo aggancio alle cose, anche se per caso poi ci prende. In questo caso può essere una soluzione temporanea o quanto meno parziale, in vista di qualcos’altro.
Ora, lasciando perdere gli stranieri ma mantenendo lo sguardo, c’è la soluzione socratica: ridurre ogni valore alla pura logica e ridurre ogni vergogna alla vergogna della contraddizione logica, per la quale basta anche il proprio sguardo su di sé, lo specchio, la riflessione; così ne viene fuori qualcosa di universale, di autonomamente conseguibile dalla coscienza, di verticale e di indissolubilmente legato alle cose, in altre parole: di vero. Sarebbe già molto, moltissimo, rispetto alla situazione in cui siamo. Eppure sono convinto che sia necessario, ma non sufficiente; perché, da sole, la riduzione di ogni valore alla logica e la vergogna come unico deterrente, cioè un deterrente basato sull’immagine di sé, mi sembra che non possano che condurre a una morale tecnocratica ed egocentrica. La logica è necessaria, ma non è sufficiente; l’egocentrismo può essere utile, ma, se è tutto, fa dell’altro uno strumento.
C’è tutto un universo di valori che è qua dentro, e là fuori, e che siccome è qua e là, non può essere inventato o importato, e che non è riducibile alla logica, anche se la logica è un valore necessario, e che attende solo di essere scoperto. Ma affinché lo scopriamo abbiamo bisogno di essere posti nella giusta prospettiva, di essere convertiti, come l’uomo che nella caverna di Platone si ritrova girato dall’altra parte, perché se noi continuiamo a guardare un muro e c’è un intero lampadario di valori dietro di noi, noi continueremo a non vederlo, e per essere posti nella giusta prospettiva forse c’è bisogno che qualcuno ce la offra, questa prospettiva, e allora prima di pretendere di vedere la realtà abbiamo forse bisogno di una storia per accorgerci della realtà, o forse di tante storie quante possono essere le diverse angolazioni dalle quali si può vedere la realtà, racconti della realtà in cui viviamo noi che nascano dalle più disparate prospettive, e allora, a quel punto, adottando queste prospettive, ci vedremmo come ci vedono gli altri, “e se vedessimo la nostra faccia come la vedono gli stranieri, cercheremmo subito di cambiarla”, e quindi, alla fine, mi pare che abbia ragione Camon.
Ringrazio Valter Binaghi perché è sul suo blog che ho letto l’articolo di Ferdinando Camon.