Non è un film su Berlusconi, ma è arrivato il momento di seppellirli con una risata.
Giulio Manfredonia parlando di “Qualunquemente” (leggi l’articolo)
È arrivato il momento di, davvero, ridere di questo.
Antonio Albanese riferendosi a non tutti i politici italiani (guarda il video)
Il giorno dopo Berlusconi, non ci sarà un post–berlusconismo. Ci sarà solo un paese, ci si sveglierà e inizierà una nuova giornata raccontandosi un sogno che non è diventato realtà. E forse avremo anche la forza, ripensandoci, di riderci un po’ su…
Così scrive Filippo Rossi in un articolo che non trovo più in rete (discutendo, tra le altre cose, del mimetico film di Albanese e Manfredonia, sul quale forse c’è da riflettere più di quanto mi pare si stia riflettendo).
Ma ci sto: immaginiamo di svegliarci, come dice Filippo Rossi, facciamo che un giorno ci siamo svegliati. Facciamo che tutto questo è finito, che siamo nell’Italia delle lenzuola fresche di bucato appese ai fili dei terrazzi, l’Italia del vociare innocente, dei gerani sui balconi, degli spaghetti gettati nell’acqua limpida, dei tetti rossi di tegole, delle rondini, una seconda repubblica nata dal sacrificio di Falcone e Borsellino, dall’ottimismo progressista post-mani pulite, da “Avanzi”, dalle posse, dai film di Salvatores, dalla rai de “I ragazzi del muretto”; insomma: facciamo che improvvisamente ci siamo risvegliati in un universo parallelo, l’altro ramo della biforcazione, l’altra storia che poteva svilupparsi dal 1993 (perché non credo che Filippo Rossi intenda dire che ci risveglieremo nel 1993). Facciamo anche finta, dunque – affinché si possa pensare davvero che ci siamo destati da un sogno, come vuole Filippo Rossi –, che la Lega Nord sia un minuscolo, irrilevante partito di fanatici; che ci siano lavoro e diritti per tutti; che il G8 di Genova non sia andato come è andato.
Ora che – sto immaginando – tutti ci siamo svegliati, che siamo sereni, felici, sollevati, fiduciosi, con la voglia di costruirci le vite, non posso fare a meno di notare che ci sono alcuni di noi che sono strani, alcuni di noi che vanno in analisi, alcuni di noi che sono come dei reduci. A prima vista ciò che li distingue da tutti gli altri è poca cosa: uno scarto, una mancata immediatezza, una certa artificialità nelle reazioni. A conoscerli meglio, poi, si notano in loro certi tratti comuni: per esempio, l’inno nazionale ai loro timpani suona acido e sinistro; molti di loro, inoltre, soffrono di una strana paranoia che li spinge a vedere nel sesso qualcosa di degradante per il partner, qualcosa che li fa sentire colpevoli; e poi non sanno più ridere, soprattutto non sanno più ridere.
Non è che non ridano: è che lo fanno con ritardo, con una certa circospezione, con nervosismo, senza fiducia, senza abbandonarsi del tutto alla risata, come se avessero il terrore che la risata possa cambiarli, prendere possesso di loro e rovinarli. Questi che ho chiamato reduci, infatti, non riescono più a credere completamente, senza riserve, che di qualcosa si possa ridere innocentemente; domandano, sospettosi, se negli altri paesi le persone ridano delle stesse cose, e, qualora li si rassicuri, con un sorriso comprensivo, sul fatto che sì, negli altri paesi le persone ridono delle stesse cose, ecco che sprofondano in se stessi; se allora li si interroga sui loro pensieri, rispondono che si stanno domandando se, quando negli altri paesi le persone ridono delle stesse cose, lo facciano con lo stesso spirito.
Quando ridono, alcuni di costoro – sto immaginando – cercano di farlo innocentemente, il che equivale, per loro, a ridere solo dopo un’analisi scrupolosa delle proprie intenzioni e un’attenta ispezione della propria coscienza; qualcosa del genere: sto ridendo di un’immoralità? Sto ridendo di un’immoralità che in linea di principio degrada, reifica qualcuno? Sto ridendo di un’autodegradazione, di un’autoreificazione? Ridendo a questa battuta, o di questo episodio, sono forse complice di un pensiero che annichilisce le persone, gli animali, le cose? Sto ridendo di una battuta a sfondo sessuale? È offensiva nei confronti delle donne? Esiste la possibilità di un’innocenza in queste cose? Questa mia risata, sono sicuro che non allontani la realtà? Esiste un disincanto buono? Esiste un disincanto innocuo? Sono sicuro che la battuta che provoca la mia risata non sia intrinsecamente fascista? Dell’espressione bunga-bunga si può ridere? Anche se era un sogno, se ne può ridere? Si può ancora ridere di qualcosa?
A un certo punto uno di loro – sto immaginando – esprimerà pubblicamente il suo disagio, tenterà di spiegare come si sente, come si sentono. Dirà che in un certo qual modo non è mai tornato. Dirà: sapete, mentre c’era il buio, mentre noi tutti affogavamo nelle sabbie mobili del sogno, di quel sogno che voialtri vi siete raccontati come ci si raccontano i sogni in una mattina di primavera, alcuni di noi, quelli che oggi hanno questi problemi, hanno lottato con tutte le loro forze per tenere ferma, presente, visibile a quante più persone fosse possibile la consistenza della realtà: il senso delle cose, la dignità delle persone. Dilagava, allora, lo ricorderete, una dialettica perversa, formule che si inerpicavano in pinnacoli di trucchi verbali, che diventavano automatismi mentali, che infine divoravano se stesse e tutte le parole che avevano raccolto. E le risate, le risate divoravano ogni cosa, ricordate? Di ogni cosa si ghignava, si ammiccava, si faceva spallucce, e chi non ghignava, non ammiccava, non faceva spallucce, era chiamato moralista. E quando qualcuno, ghignando, ammiccando, facendo spallucce, pronunciava la parola “moralista”, un altro pezzo di realtà diventava privo di senso; non veniva sovvertito, quel pezzo di realtà, no: proprio si allontanava, veniva come risucchiato in un abisso di insensatezza, e si portava con sé, nell’abisso, pezzi di logica, pezzi di anime, pezzi di persone e di vite, intere galassie di innocenza. Ricordate, vero? E oggi, oggi che tutti ci siamo svegliati, noi che abbiamo questi problemi, li abbiamo perché non siamo più sicuri di dove siamo, di cosa stiamo facendo, di cosa ci muove, non sappiamo se quella che ci circonda ora è la realtà o il sogno di nuovo mascherato da realtà; è come se non ci fossimo davvero svegliati; e allora cerchiamo di toccarla, la realtà, come ci si china per toccare un pavimento, per assicurarsi che è lì, ma la realtà non si può toccare come si tocca un pavimento, non più ormai, dopo il sogno; e cercando di toccarla, compulsivi, noi precipitiamo, precipitiamo nell’abisso, quell’abisso che, mentre eravamo nel sogno, abbiamo scoperto dentro l’uomo, l’abisso che abbiamo scoperto in ogni uomo, quindi anche in noi stessi, anche in noi stessi, capite? In ognuno di noi! Voi dovete, dovete ricordare!
Allora – sto immaginando – ci sarà qualcuno che prenderà la parola e risponderà: ecco, il solito disfattista che non ha senso dell’umorismo, che non sa vivere, che pretende di dare lezioni, che non sa godere, che non è capace di sognare.
E allora il reduce si sveglierà, urlando.